L'epica dell'ultimo minuto
Una stagione che si decide quando tutto sembra già andato. Emozionanti, spesso decisivi, i gol nel tempo di recupero sono diventati una costante. Una volta la chiamavano “zona Cesarini”
Juventus-Napoli, minuto 91: Koulibaly. Real Madrid-Juventus, minuto 92: Cristiano Ronaldo. Lazio-Juventus, minuto 93: Dybala. Napoli-Chievo, minuto 93: Diawara. AEK Atene-AEL Larissa, minuto 94: Lazaros Christodoulopoulos. Manchester City-Southampton, minuto 93: Sterling. Cagliari-Lazio, minuto 94: Immobile. Roma-Cagliari, minuto 94. Novanta più qualcosa, recupero. Gli goccioli di una partita che raccontano un inizio anche se ci si avvicina a una fine. Si gioca lì, quest’anno più che mai, con una sequenza impressionante di episodi che in fila uno all’altro raccontano una stagione che si decide quando tutto sembra già andato. I gol nel tempo di recupero sono diventati una costante, sono la base di uno degli assunti più elementari, dunque banali, ma non per questo poco interessanti del calcio: “Non è finita finché non è finita”. Una palla, una. Pulita o sporca: cambia il match, quindi la giornata, quindi il mese, quindi forse anche il campionato. Senza il gol di Dybala alla Lazio, forse gli equilibri della lotta scudetto Juve-Napoli sarebbero stati diversi. Senza il gol di Diawara al Chievo, il campionato sarebbe finito. Senza il colpo di testa di Koulibaly, la partita di stasera a San Siro avrebbe avuto un altro significato e il campionato anche. Ma “Senza” non è una variabile reale, è una suggestione inapplicabile. Perché il tempo c’è, evidentemente. Siamo tutti nel tempo di recupero, in affanno sulle nostre vite e quindi anche sul pallone. In quello spazio temporale che parte dal minuto novanta di una partita, cambia la dinamica di tutto: un tiro che al decimo, al trentacinquesimo, al sessantotesimo non si prova neanche nel recupero diventa possibile. Si prova e talvolta riesce. Aumentano i cross, cresce il ritmo. Palla in mezzo, confusione, idee zero, voglia tanta, cattiveria di più. Sbuca un piede, una testa, un ginocchio. Gol. Rigore. Parata. Brignoli, il portiere del Benevento, che si lancia in area avversaria e la prende di testa in tuffo sopra tutti gli altri. È l’epica dell’ultimo minuto, che Pupi Avati aveva sublimato in un film che aveva deciso di titolare proprio così e che si chiudeva con il gol decisivo segnato all’ultimo minuto da un ragazzino della Primavera entrato al posto del centravanti vecchio e corrotto. La ragione logica della fondamentale emozione del recupero è che l’imperfezione del calcio, senza tempo effettivo, aveva dato alla discrezionalità (e al segreto) dell’arbitro l’assegnazione dell’extra time. Tu non sapevi quanto fosse: era l’adrenalina del possibile fuori tempo massimo, un tempo indefinito, che giocatori, allenatori, spettatori vivevano nell’inconsapevolezza più totale.
C’è anche un film di Pupi Avati, che si chiude con il gol di un ragazzino della Primavera entrato al posto del centravanti vecchio e corrotto
La definizione di un tempo certo di recupero ha cambiato l’approccio, ma ha lasciato il concetto: oggi sei perfettamente consapevole di quanto ti resta, il che ha forse diminuito l’adrenalina, ma ha aumentato i margini di giocarsela sempre e comunque. Il gol negli ultimi minuti sembra una maledizione o una benedizione, pare il frutto di un destino positivo o negativo. Allora è stato studiato, analizzato, catalogato. Non è una fatalità. Il tifoso non può accorgersi di ciò che sta accadendo davvero perché le emozioni precedono le riflessioni. Non s’accorge che l’andatura dei giocatori negli ultimi dieci minuti invece di diminuire a causa della stanchezza, aumenta. Non nota che il rendimento dei calciatori cresce in maniera direttamente proporzionale al trascorrere dei minuti che vanno dall’ottantesimo in poi. E’ scienza. O quantomeno statistica. Negli ultimi anni, i gol segnati nel recupero sono continuamente aumentati. E oltre la metà, ormai da cinque anni, sono gol decisivi per il risultato finale. Qualche anno fa, durante una lotta-scudetto Juventus-Roma, Gabriele Romagnoli scrisse su Repubblica un articolo che inquadrava la dinamica dei gol segnati nei minuti finali delle partite all’interno di un contesto alla “Tutto il calcio minuto per minuto”, che aumentava la sensazione epica del duello a distanza: “‘Scusa Ameri, scusa Ameri, qui è San Siro, la Sampdoria ha pareggiato’. ‘Bergamo!, zzzzut! Ha segnato la Roma! Strootman!’ Juve riagganciata! Campionato riaperto! ‘Llllllorenteeeeeeeee’. Una cosa così, tre emozioni in un minuto, il novantesimo, quando la passione sembra sopita, la pace dei sensi vicina, e invece, toh, l’ultimo guizzo del cuore: da rimanerci”.
Dalla sconfitta (rigore contro: parato) alla vittoria per il Watford di Gianfranco Zola: tutto a sei minuti dopo il tempo regolamentare
Il gol all’ultimo minuto sono moderni e antichi. C’è chi punta sul romanticismo, sul passatismo e quindi sulla nostalgia. Appunto. Così troverete ancora e sempre il paragone con il povero Renato Cesarini, che qualche gol effettivamente lo segnò negli ultimi minuti, ma che diventò un caso per uno e uno solo, quello contro l’Ungheria al Filadelfia di Torino. A inventare il caso Cesarini che poi qualcun altro trasformò in “zona”, fu il giornalista Eugenio Danese. Dei gol alla fine della partita ne parliamo ancora oggi con lo stupore di chi non s’arrende all’evidenza e spera che in fondo il gesto fortuito che regala quell’ultima emozione sia frutto di qualche strano gioco tra l’astrale, il magico e il religioso. Schiavi di una retorica autoprodotta e autocelebrata che ci fa rotolare nel nostro godimento o nella nostra frustrazione, che sono poi i due unici veri stati d’animo del tifoso pallonaro. Che cosa più di un gol subito all’ultimo secondo può farti sentire uno sfigato? Siccome le delusioni nel pallone sono sempre superiori alle soddisfazioni c’è un sacco di gente che in fondo in fondo quel gol dell’avversario quando il tempo è finito lo invoca sottovoce e ovviamente senza esserne del tutto consapevole. Poi c’è l’alternativa, l’unica. Cioè chi quel gol lo fa. Emozione uguale e contraria. Indimenticabile. Nick Hornby ne ha fatto il cuore di “Febbre a Novanta”, perché il suo Arsenal vinse uno scudetto il 26 maggio 1989, ad Anfield. Già raccontato così: “A destra i rossi, cioè il Liverpool (laggiù li chiamano Reds), a sinistra l’Arsenal, in giallo, ma è la seconda maglia visto che il colore sociale è il rosso. I Reds sono avanti, in classifica, l’Arsenal ha dominato il campionato, ma si è poi smarrito, così, capita, mica ci sono tanti perché, succede. Ora: l’Arsenal insegue: deve vincere, mica qualsiasi risultato: 2-0. Impossibile, sulla carta, una roba da pazzi. Primo tempo, niente; secondo tempo, 1-0, affiorano speranze; 90’ ancora 1-0, un minuto dopo, invece, zac: luce. Michael Thomas: gol. Michael Thomas, un nero, uno anche abbastanza scarso a giocare a pallone, un gregario che all’improvviso, senza saperlo, lo vedi che sta nel posto giusto, meglio nell’attimo in cui qualcosa capita. Capita quello che tutti quelli che respirano pallone e che ci hanno pure provato a inseguirlo un pallone e sono milioni e stanno in cinque continenti e se glielo chiedi ti dicono proprio questo, vorrebbero: cioè segnare il gol che cambia i destini, quello che nel lessico del calcio si definisce il-gol-per-entrare-nella-storia-della-tua-squadra. Dell’Arsenal, stavolta, ma anche di tante altre, basta fare un giro e andarle a cercare storie e gol così, magari più piccole ma ci sono, su e giù per il mondo”.
Il tifoso non si accorge che l’andatura dei giocatori negli ultimi dieci minuti invece di diminuire a causa della stanchezza, aumenta
Ce ne sono così tante, che oggi su Youtube esistono canali titolati: “Gol all’ultimo minuto edizione 2017-2018”. Perché evidentemente si possono collezionare, come un almanacco. Stagione per stagione. D’altronde il tabellone luminoso che mostra il recupero è uno dei momenti chiave della partita. Di ogni partita. Un evento atteso, inquadrato dalle telecamere, vissuto dai protagonisti che già durante il match calcolano a quanto ammonterà: 30’ secondi per ogni sostituzione, un minuto per un gol o per un rosso. Più qualche resto. Il calcolo è diventato un esercizio collettivo che allunga la partita e adesso crea aspettative. Non è più finita, anzi. Come già detto, è un nuovo inizio, tanto che comincia a diventare un rito anche il recupero nel recupero. Tu mi fai la sostituzione per perdere tempo durante il recupero? Altri trenta secondi. Questo cambia molte cose: il vizio di perdere tempo per arrivare prima alla fine diventa inefficace, spesso dannoso. In serie B, quest’anno, l’Avellino ha fatto una sostituzione durante il recupero, l’arbitro ha allungato l’extratime di trenta secondi e qualche istante prima che scadessero, l’Avellino ha subito il gol del pareggio. Morale: se non avesse perso tempo, avrebbe vinto la partita. È epica anche questa, perché dall’altra parte c’è qualcuno che c’ha creduto comunque, nonostante l’estremo tentativo dell’avversario di chiuderla prima. È come LeBron James che nella partita di playoff contro Indiana prima stoppa Oladipo, poi prende la palla a 29 secondi dalla sirena e la lascia partire da tre quando il cronometro segna uno virgola qualcosa. E fa canestro, ovvio. Passare da sconfitta a vittoria nell’ultimo minuto: che vuoi di più? L’episodio calcistico che più si avvicina è accaduto qualche anno fa a Gianfranco Zola e ai suoi ragazzi del Watford. Play-off di Championship, contro il Leicester. Sul Foglio l’aveva raccontato Jack O’Malley: “Semifinale di playoff, agli ospiti del Leicester viene concesso un rigore al 96’. Con un gol andrebbero in finale a Wembley a giocarsi la promozione in Premier. E invece il portiere del Watford, Almunia, fa una cosa buona in carriera e para, prima di piede e poi di faccia sulla ribattuta. Come in un sogno scritto da un ubriaco la palla finisce sui piedi dell’ala del Watford, corsa sul fondo, cross, torre e gol. Watford in finale. Sul campo si scatena un’orgia sportiva, i tifosi lo invadono prima del fischio finale, Zola corre, salta, cade, si rialza, abbraccia gente a caso, il telecronista quasi sviene, poi piange e infine ride. L’attaccante del Leicester è impietrito mentre attorno i tifosi avversari si abbracciano. Dio, quanto è fottutamente bello questo sport che abbiamo inventato”.
Lo scudetto 1989 dell’Arsenal, vinto con una rete oltre il 90esimo. Nick Hornby ne ha fatto il cuore di “Febbre a novanta”
Difficile un finale più incredibile. Entusiasmante e deprimente. Qualcosa che succede nella sua spettacolarità solo all’ultimo minuto. Alex Ferguson lo temeva, tanto da dedicare nella sua autobiografia, un passaggio a quella che lui stesso ha definito “sindrome dell’ultimo minuto”: Sostiene, Sir Alex, che i giocatori hanno molta più energia fisica e mentale negli ultimi istanti di partita. Una specie di iperconcentrazione che ti fa fare cose che in altri momenti della partita non sei in grado o non hai voglia di fare: “La progressione fino al fischio finale crea un’eccitazione e una tensione incredibili”. L’allenatore spesso è inconsapevole. Butta dentro a cinque minuti dalla fine un giocatore e tutti, ma proprio tutti, pensano che sia un chiaro messaggio dello spero in Dio. Secondo Ferguson no. E’ l’inconsapevole certezza che ci sia più forza, più voglia, più energia. Come nella finale di Champions del 1999, al Camp Nou: Bayern Monaco-Manchester United. Il Bayern vince. Minuto novantesimo più uno: corner di Beckham, mischione, pure il portiere in aerea avversaria, Giggs tira dal limite una palla moscia che rimbalza su due caviglie, finisce a Sheringham che la tocca e fa uno a uno. Minuto novantesimo più tre. Altro corner di Beckham, colpo di testa di Sheringham, tocco di Solskjaer a un metro dalla porta: 1-2. Coppa al Manchester United. Coppa ad Alex Ferguson. La sua prima Champions, vinta come non avrebbe pensato di vincerla. Perché l’allenatore la vuole chiudere sempre: facciamone tre e poi ci pensiamo. Ma quello che avviene in campo quando una partita si prolunga su un risultato incerto fino alla fine e va oltre è solo una finta casualità. Perché non è il calcio che comanda, quanto il mondo in sé, di cui il calcio è una parte. E il mondo racconta la chiara dinamica della rincorsa all’ultimo momento utile per fare qualcosa:. abbiamo bisogno dell’urgenza, della sveglia che suona. Il pallone si adegua al mondo in cui vive, si specchia in un altrove, non dà risposte, fotografa semplicemente la realtà. Procrastinare è una possibilità, per qualcuno una necessità, per altri uno stile. Qualche anno fa, un filosofo di Stanford, John Perry, scrisse un libro che fece molto discutere: “The Art of Procrastination”. Racconta come quando e perché l’atteggiamento dell’essere umano di fronte a una certa cosa diventa: io rimando, rimando, rimando, poi si vedrà. Attenzione: non significa non fare. Significa posticipare il più possibile un impegno. Attenzione bis: non è menefreghismo, disinteresse, passività. E’ essere diversamente operativi. Paolo Di Stefano ne scrisse sul Corriere della Sera: “Se stilate (in tutta calma) una lista degli impegni dal più urgente ai meno importanti, il consiglio è quello di concentrarvi sui secondi, in modo da non dare a voi stessi e agli altri l’impressione fastidiosa (o angosciante) di essere inattivi. Solo cercando di sfuggire alle priorità si finisce per sbrigare la gran parte del lavoro per affrontare poi trionfalmente e a cuor leggero l’impegno più urgente.
Applicato al calcio, il concetto si esaurisce nell’ultimo minuto di Ferguson, dove le energie si moltiplicano nonostante la stanchezza teorica. Il resto lo fa il coraggio ponderato dal rischio del fallimento che una sconfitta o di un pareggio. Se il Napoli non avesse segnato contro il Chievo, anche il gol di Koulibaly all’Allianz Stadium della Juve sarebbe stato inutile. Il dribbling di Dybala che porta al gol contro la Lazio al minuto 93 è stato un unicum in tutta la partita: negli altri 92, l’attaccante della Juventus era rimasto quasi immobile, impantanato nella rete costruita per lui dagli avversari. S’è liberato, è andato, ha calciato. All’incrocio. Dove il tiro all’ultimo minuto diventa ciò che fa scomparire tutto quello che è successo prima. Bello o brutto che sia. Importante o inutile che sia.