Il Fergie time non finirà mai
Mezzo mondo prega per sir Alex Ferguson, anche quelli che non lo hanno mai sopportato
Manchester. Tutto il mondo aveva capito che Alex Ferguson non sarebbe durato in eterno cinque anni fa, quando annunciò improvvisamente la decisione di lasciare la panchina del Manchester United, e dunque tutte le panchine possibili per un uomo che aveva preso i Red Devils a metà degli anni Ottanta – quando erano la caricatura grottesca della squadra capolavoro di vent’anni prima, e li aveva portati a diventare il club più tifato al mondo e uno dei più vincenti di sempre. Da quel pomeriggio di maggio del 2013 Sir Alex Ferguson ha sofferto in tribuna vedendo la sua creatura dimenticarsi da dove veniva. Nessuno più di lui sapeva però che dopo un grande ciclo vincente ci vogliono tempo e pazienza. Chiunque conosca bene il calcio pensa che persone come Ferguson siano immortali, ecco perché speriamo tutti che presto Sir Alex si risvegli, che l’emorragia cerebrale che lo ha steso sabato sia come il gol del Bayern Monaco della finale di Champions League del 1999, recuperabile contro ogni logica nei minuti di recupero, passati alla storia come il “Fergie time”. E anche se siamo inglesi la parola che stiamo ripetendo di più in questi giorni è “pray”, preghiamo. Non è ricoverato all’Alder Hey Hospital di Liverpool, e questo è un conforto per tutti noi, e se ci fosse un giudice capace di dire che il best interest di Ferguson è morire lo prendo a calci in culo fino alle scogliere di Dover. Che beffa sarebbe se il più grande manager della storia del calcio se ne andasse avendo fatto come ultimo gesto pubblico quello di premiare il rivale di una vita, l’allenatore dell’Arsenal Arsène Wenger.
Leggete un qualunque giornale inglese in questi giorni: il tecnico dello United non è mai stato particolarmente simpatico ai miei colleghi giornalisti che seguivano la sua squadra. Burbero, stronzo, antipatico, teneva sempre a distanza tutti. “In certi momenti il Manchester era la squadra più difficile da coprire”, ha scritto domenica sul Guardian Daniel Taylor. Rompicoglioni di prima categoria, Ferguson faceva le pulci a qualunque articolo critico delle prestazioni dei suoi giocatori venisse scritto sui giornali inglesi. Faceva paura, eppure non c’è nessuno che non gli voglia bene. Tra i suoi ex giocatori, naturalmente, ma pure tra gli avversari di sempre, i dirigenti delle altre squadre, qualunque tifoso di calcio al mondo.
In Italia avete Cecchi Paone che spiega la scienza in tv, in Inghilterra abbiamo Rachel Riley (che ha una foto di Ferguson in salotto)
C’è un aspetto paradossale, di quando lui era allenatore di una delle squadre che hanno fatto la storia di questo sport: Sir Alex è un uomo che non sa perdere, non sopporta perdere e non vuole perdere. Anche per questo spesso dopo una sconfitta non era raro sentirgli dire che il suo United aveva perso per colpa dell’arbitro. Faceva parte del suo modo di essere, anche se ci credeva davvero, ma la sua rabbia si fermava all’invettiva. Nessun complotto, nessuna accusa di corruzione, nessun pianto né ostentazione di superiorità morale. Nella penultima stagione sulla panchina dei Red Devils perse il campionato per due gol che il Manchester City fece nei minuti di recupero dell’ultima partita. Ferguson non accusò gli avversari del City di essersi scansati, né i tifosi dello United se la presero con chi durante la stagione aveva fermato la loro squadra sul pareggio pur non avendo obiettivi concreti. Lo perse per differenza reti. L’anno dopo lo vinse lui. Non ne fanno più della pasta di questo scozzese, che è già entrato nell’eternità della storia del calcio. Comunque vada a finire, il Fergie time non finirà mai.