La vena di Rafa Nadal
Ha vinto tutto, ma non gli basta, e non vuole lasciare niente ai giovani. Perché a 32 anni il tennista spagnolo ha ancora voglia di essere il Cannibale
La vena sull’avambraccio sinistro è sempre rimasta ferma al suo posto. Rafael Nadal se la porta dietro da una vita. E’ una strisciolina viola che sporge, gli spacca il muscolo a metà, diventa più grossa tutte le volte che si prepara a colpire il dritto. Quando stringe i pugni e li rivolge verso il cielo per esultare, quella vena sembra voler esplodere.
Aveva perso i muscoli Nadal, sono tornati anche loro, sono tornati quelli di un tempo: asimmetrici, sproporzionati, aggressivi. Fanno quello che devono fare, spaventano l’avversario. Succede dal 2005. Il campione spagnolo compirà trentadue anni tra meno di un mese, il 3 giugno, e ha ricominciato a vincere. Il 17 aprile, dopo una pausa forzata dal tennis è tornato in campo per difendere il titolo dell’anno scorso al Master 1000 di Montecarlo, il primo torneo della stagione sulla terra rossa. Prima di quel giorno aveva giocato soltanto due incontri, in Coppa Davis, contro la Germania di Alexander Zverev e di Philipp Kohlschreiber. Aveva battuto entrambi ma si sentiva insicuro, aveva paura che il dolore non fosse passato, temeva di non essere ancora pronto per la competizione. E’ strano ed è ingiusto ma basta un attimo per dimenticarsi come si vince una partita di tennis.
Aveva perso i muscoli, sono tornati anche loro, sono tornati quelli di un tempo: asimmetrici, sproporzionati, aggressivi
Suo zio Toni, che lo ha sempre seguito, gli diceva: “Il bel gioco lascialo agli altri, non ti servirà”. Ma ora anche Rafa è cambiato
Nadal ha conquistato il torneo vincendo cinque partite senza mai perdere un set. Durante la semifinale vinta 6-4 6-1 contro la testa di serie numero cinque del tabellone Grigor Dimitrov, subito dopo essere andato a stringere la mano all’avversario, Nadal ha tirato fuori dal borsone il cellulare e ha cominciato a scrivere messaggi al suo staff. Non aveva ancora smesso di sudare, le calze e le gambe erano sporche di terra rossa, eppure lui sentiva il bisogno di chiedere al suo allenatore Carlos Moja di rientrare in campo. Non era soddisfatto delle sensazioni che aveva provato in partita. Non gli piaceva il modo in cui aveva colpito il rovescio, gli era sembrato troppo poco potente, troppo poco incisivo. Moja non ha avuto scelta; sotto il sole delle quattro di pomeriggio, con trenta gradi e un’ombra inesistente, ha dovuto acconsentire e ricominciare un’altra ora di allenamento. Il tennis non è un bacio della fortuna e non è una grazia divina. Non è un caso se Nadal il giorno dopo ha conquistato per l’undicesima volta il torneo di Montecarlo. Nessuno ha mai vinto così tante volte nello stesso posto. Vincendo nel Principato di Monaco e poi a Barcellona la settimana dopo (per l’undicesima volta anche qua), il maiorchino ha riconfermato la sua classifica tornando, fino a ieri, numero uno al mondo. “Caro Nadal, lo sa che le manca pochissimo per raggiungere John Mc Enroe e il suo record di 48 set vinti consecutivamente sulla stessa superficie?”, gli ha chiesto un giornalista pochi giorni fa durante il torneo di Madrid. “Ah sì?”, ha risposto il tennista. “Proprio così. Non si sente soddisfatto?”. “A dire il vero non è questo il motivo per cui continuo a giocare”. Per togliersi il pensiero ed evitare altre domande, il record del 1984 alla fine lo ha battuto, prima di perdere ieri nei quarti di finale contro Dominic Thiem e cedere nuovamente a Federer la prima posizione della classifica Atp. Poche ore dopo quella conferenza stampa, Nadal è tornato di nuovo in campo ad allenare il rovescio, il colpo che da sempre lo fa sentire più insicuro. Voleva che fosse più potente, più incisivo. Il tennis è uno sport ossessivo, logorante. Fa male, obbliga a compiere movimenti innaturali, mangia le cartilagini, divora il cervello. La fatica e lo stress agonistico accumulati durante la carriera rimangono conficcati nelle ossa, prima o poi si fanno sentire, presentano il conto. L’adrenalina, finché c’è, attutisce la sofferenza. Prima o poi però, svanisce anche quella.
Quest’anno, durante i quarti di finale degli Australian Open, il primo torneo del Grande Slam della stagione, Nadal si è dovuto ritirare contro Marin Cilic per una doppia lesione muscolare alla gamba destra. E’ stato fermo settantacinque giorni e ha ammesso di avere pianto molte volte per il dolore. Mentre Roger Federer vinceva sul cemento di Melbourne e su quello di Rotterdam, lui andava a pesca con la sua barchetta a Manacor e non riusciva a godersi il riposo. In quei mesi ha promesso a se stesso e alla sua schiena che non avrebbe mai più sputato tutto quel sangue per il tennis. A trent’anni gli sportivi devono imparare a dare ascolto al proprio corpo. Non c’è niente da fare, è lui che comanda e a volte smette di seguirti a volte, invece, provoca, ti deride, gioca contro di te. Per Nadal non è ancora arrivato il momento, però durante la pausa ha deciso di stravolgere il suo stile di gioco. E’ diventato più aggressivo. Improvvisamente ha cominciato a cercare angoli, ad attaccare. Adesso Rafa rischia, prende iniziative, ha fretta di chiudere, di accorciare gli scambi. La rete non gli fa più paura. Non è diventato più lento, non ancora, ma sa che succederà e quindi, come ha fatto Federer nel 2014, ha deciso di prevenire i danni del tempo, giocare di anticipo. Non è facile per niente. Non lo è soprattutto quando sei cresciuto con un unico comandamento, quello di rincorrere la pallina fino allo sfinimento e non sbagliare mai. Suo zio Toni, che gli ha fatto da allenatore per tutta la vita e da quest’anno ha smesso di seguirlo da vicino, glielo ha sempre detto: “Il bel gioco lascialo fare agli altri, non ti servirà”. Con quelle gambe e con quel cuore non era necessario pensare troppo, impazzire con schemi e tattiche. Gli sarebbe bastato inchiodarsi alla linea di fondo e scaraventare dall’altra parte della rete tutto ciò che rimbalzava nel suo campo, anche i gesti bianchissimi di Federer, soprattutto quelli. L’eleganza non basta a se stessa, su un campo da tennis la bellezza non salva proprio nessuno. Non più. Grazie agli insegnamenti di suo zio e alla passione che riusciva a mettere in ogni punto, il tennista spagnolo dal 2005 in poi ha vinto tutto ciò che si può vincere: più di 890 partite, 77 tornei, sedici titoli del Grande Slam, dieci Roland Garros e un oro olimpico.
Oggi Nadal è un giocatore diverso, ha smesso di correre per chilometri e chilometri dentro al campo. Non prova più a raggiungere ogni pallina che gli ritorna indietro, ha finalmente capito che alcuni colpi è meglio lasciarli andare. Sa che prima o poi il suo fisico lo ringrazierà. Oggi sulle smorzate che gli fanno gli avversari, a volte si morde le labbra, ha la tentazione di partire ma poi improvvisamente si ferma, rinuncia al recupero. Non solo. Per contenere le energie che gli sono rimaste, ha lavorato sulla sua prima di servizio, il colpo più complicato del tennis. Ma com’è possibile, quando hai più di trent’anni e sei il numero uno al mondo anche solo pensare di potere ancora migliorare qualcosa? Provando e riprovando. Centocinquanta, duecento servizi al giorno, tutti i giorni, tutti uguali Se non fai altro che lavorare qualcosa dovrà succedere per forza, questo pensava Moja mentre guardava il suo allievo e ne ammirava la dedizione, la maniacalità. Qualcosa infatti è successo. Ha superato il muro delle 400 vittorie sulla terra rossa.
Prima di ieri, l’ultima volta che Rafa Nadal aveva perso una partita sulla terra rossa era stato durante i quarti di finale degli Internazionali d’Italia dell’anno scorso, contro l’austriaco Dominic Thiem, sempre lui. Era il 19 maggio, è passato quasi un anno. Da allora Nadal sulla sua superficie preferita non ha fatto altro che vincere, e la sconfitta di ieri sembra essere più un incidente di percorso che un segnale allarmante. L’anno scorso lui e Roger Federer si sono spartiti tutti i tornei più importanti della stagione, Australian Open e Wimbledon per lo svizzero, Roland Garros e Us Open per lo spagnolo. Come ai vecchi tempi. Proprio così.
E tutti gli altri? Che fine hanno fatto gli antichi rivali?
Andy Murray si è operato all’anca e non riesce ancora a rientrare, Stan Wawrinka è anche lui ai margini per un infortunio. Novak Djokovic a trent’anni non è più nemmeno l’ombra del giocatore che è stato in passato. Si è perso tra dieta vegana, anzi no, vegetariana, guru, santoni, pettegolezzi, vecchi allenatori e nuovi fantasmi. Pochi giorni fa, dopo aver perso al secondo turno del torneo di Madrid contro Kyle Edmund, numero 22 del ranking, il tennista serbo ha dichiarato: “Devo continuare a pregare di riuscire a giocare meglio”. Intanto aspetta e spera, ma ha capito anche lui che non basta più. E i giovani? Il tennis del futuro si è fermato in semifinale, oltre non riesce ad arrivare. L’ultima volta che ha giocato contro Nadal, Alexander Zverev ha fatto nove game in tre set. Nick Kyrgios appare e poi scompare subito dopo. David Goffin quest’anno contro lo spagnolo ha perso 6-4 6-0, Kei Nishikori 6-3 6-2. In tutti questi mesi il numero uno al mondo non è mai stato sfiorato dal pensiero di poter perdere un set.
Il 29 aprile, durante la finale del torneo di Barcellona, Rafa ha affrontato Stefanos Tsitsipas, giovane talento dalle belle speranze. E’ finita 6-2 6-1 in poco meno di un’ora. Qualcuno ha pensato che fosse normale e che un risultato del genere non significhi nulla. Il giocatore greco deve ancora crescere, farsi le ossa, imparare a stare in campo in mezzo ai grandi. Tutto vero, ma alla sua età Nadal vinceva già: era il numero due del mondo e nel circuito colleghi e giornalisti avevano cominciato a soprannominarlo “il Cannibale”. La vena pulsava già, faceva impressione, faceva paura. Poche settimane fa, dopo essersi preso la sua personale rivincita contro Thiem, il Cannibale, in conferenza stampa ha fatto come al solito i complimenti al suo avversario, poi però ha ammesso: “Non è possibile che io, alla mia età, riesca a vincere così facilmente contro uno dei migliori giocatori al mondo sulla terra rossa. Significa che c’è qualcosa che non va”. Thiem si è rifatto ieri, ma nel tennis maschile la rivoluzione dei giovani continua a essere rimandata.
Il 17 aprile ha vinto per l’undicesima volta il torneo di Montecarlo. Nessuno ha mai vinto così tanto nello stesso posto
Sulla terra rossa non ha perso un set per mesi. La sconfitta di ieri a Madrid contro Dominic Thiem è un incidente di percorso
La maternità di Serena Williams ha dato una scossa al tennis femminile, le giovani promesse si sono svegliate, hanno capito che è arrivato il loro momento. Possono competere, possono vincere. Jelena Ostapenko, Garbine Muguruza, Sloane Stephens, Caroline Wozniaki. Quest’anno, i grandi tornei hanno avuto nomi giovani, diversi e diversi modi di giocare. Non è indice di poca costanza, ma di evoluzione. Significa che il livello migliora, sta succedendo qualcosa. Si può sopravvivere anche senza Venus e Serena (sempre siano lodate). E senza Federer e Nadal? Che ne sarebbe del tennis senza di loro? Le uniche novità di questa stagione sono stati Juan Martin Del Potro a Indian Wells e John Isner a Miami, che finalmente hanno vinto qualcosa anche loro. A 29 e 33 anni.
“In questo momento”, ha dichiarato Nadal pochi giorni fa “i più forti giocatori al mondo sono vecchi”. Chi lo stava ascoltando si è messo a ridere, lui però non voleva scherzare. “Non c’è proprio niente da ridere. Siamo vecchi sul serio”. L’anno scorso il ritorno suo e di Federer sono sembrati un miracolo, una ricompensa, il segno che il tempo, per fortuna, a volte si arrende, ti lascia giocare, ti lascia sperare. Se lo sono meritati. Quest’anno, però, il fatto che loro due continuino ad alternarsi ai primi due posti della classifica, dimostra che c’è un problema: il passato è ancora troppo grande per lasciare posto al futuro.
Rafa Nadal, giustamente, se ne frega. Lui, la sua rivoluzione l’ha già fatta quindici anni fa quando si è mostrato al mondo regalando al tennis tutto quello che poteva offrirgli. I tic nervosi, ossessivi, i muscoli scolpiti e sproporzionati, lo stile di gioco arrotato, irregolare, nervoso; ogni colpo una sofferenza, ogni scambio una tortura; la voglia di prendere a morsi la pallina pur di non concedere il punto all’avversario, che fatica ogni volta, e che liberazione. Adesso giocherà agli Internazionali di Roma e non avrà nessun titolo da difendere. Gli era successo poche volte. La prima volta che ha vinto al Foro Italico aveva 19 anni, era il 2005. Sull’avambraccio sinistro una strisciolina di sangue gli spaccava il muscolo a metà. Oggi la vena è ancora lì, ferma al suo posto, non si è mai mossa.