L'infelice revolución di Maurizio Sarri, il Masaniello in tuta
Il grillismo applicato al calcio. Così il tecnico saluta il Napoli tra “poteri forti”, applausi e zero titoli
Roma. “Lo faccio per passione come Maurizio Sarri / niente giacca e cravatta come Maurizio Sarri / sto con la barba sfatta come Maurizio Sarri / hasta la revolución come Maurizio Sarri”, canta il rapper Nasta e mentre canta c’è una Napoli che in fondo ci credeva davvero alla revolución azzurra. Tutto finito. Ora che è arrivato l’avvocato difensore degli italiani, Giuseppe Conte, se ne va l’allenatore del popolo. Maurizio Sarri si è alzato dalla panchina dei partenopei e ha lasciato il posto a Carletto Ancelotti.
E’ finita l’epoca del Napoli, città del “calcio più bello d’Europa”, almeno per l’allenatore del Tottenham Mauricio Pochettino, per Arrigo Sacchi, per Marek Hamsik, capitano uscente del Napoli (ma questo non vale). Pure per la prima pagina dell’Equipe del 21 settembre 2016, che al bello preferiva il “sexy”, ma il concetto era lo stesso. Tutti a esaltare il gioco del tecnico toscano. Per tre anni. Tre anni nei quali ha conquistato mille applausi e zero titoli. Peccato. Perché Sarri è allenatore preparato e raffinato, quello che “ha fatto la gavetta”, quello che dall’11 giugno 2015 migliora il record di punti in campionato dei partenopei. Ma a festeggiare sono stati altri, o meglio un altro, Massimiliano Allegri, la sua nemesi.
Il Napoli faceva spettacolo e la Juventus vinceva. E il ritornello era il solito: c’è qualcosa che non va.
Lo diceva il diretto interessato ogni volta che ne aveva occasione. A inizio stagione: “Vorrei sapere il nome di chi decide i calendari. Ogni volta giochiamo contro squadre che hanno almeno un giorno di riposo in più di noi”. A metà stagione: “La completa imparzialità non può esistere per gli arbitri. E’ normale. Io quando allenavo in serie A a Empoli ho avuto la sensazione di subire dei torti quando affrontavo le grandi, ma questa sensazione contro il Napoli non l’ho avuta”. A fine stagione: “Gli episodi possono spostare i valori, che i soldi poi facciano una componente anche tecnica della squadra per valori individuali è anche indubbio”.
E a ripeterlo hanno iniziato a crederlo un po’ tutti, non solo a Napoli.
Così Sarri è diventato l’allenatore da esportazione, quello da mandare all’estero perché incompreso in Italia, quello che ha regalato spettacolo, ma a cui è stato impedito di vincere. Anche in tempo di Var, che doveva eliminare i torti arbitrali, ma che in qualche modo ha favorito le solite note. Non è vero, ma crediamoci. Perché i fatti non servono, basta il vociare del popolo, che ha eletto Sarri a paladino dei perdenti “battuti dai poteri forti”, così almeno si diceva in radio e si leggeva sui social. “C’hanno fregato la rivoluzione”, gridava un tifoso ad Aurelio De Laurentiis. E lui annuiva. Che è un po’ come il “c’è un complotto mediatico contro di noi” di Di Maio e Salvini. All’allenatore del cambiamento non è andata bene, al governo del cambiamento chissà.
D’altra parte Napoli, almeno nel calcio, ma forse non solo nel calcio, è la città delle rivoluzioni abortite, non vincenti. Era successo nella seconda metà degli anni Sessanta con Bruno Pesaola in panchina, con Sivori, Altafini e Zoff in campo. Gran calcio, zero titoli. E poi con gli azzurri di Luis Vinício, il brasiliano che portò sotto il Vesuvio il calcio totale, il migliore che si poteva trovare allora in serie A. Anche per lui tanti complimenti e uno zero nella casella trofei. Napoli non poteva vincere, si diceva. Poi arrivò Maradona e due scudetti arrivarono. C’era il più forte, dissero, non poteva andare altrimenti. Vero. C’erano anche Ottavio Bianchi e Albertino Bigon, due allenatori più pratici che belli. Perché, almeno nel calcio, vale quello che disse Nereo Rocco: “Giocar bene è meraviglioso. L’Ungheria del 1954 era meravigliosa, la squadra più bella mai vista. Perse la finale dei Mondiali con la Germania, che era ordinata. Ma il calcio è così: alla bellezza meglio la pratica”. La rivoluzione è già finita anche stavolta.