“Amiamo il calcio perché aspettiamo sempre il ritorno dell'imprevedibile”
Il filosofo Redeker oltre la nostalgia e i luoghi comuni
Parigi. Dove sono finiti gli eroi? Che fine hanno fatto le divinità pagane della palla rotonda, le bandiere intramontabili, i trascinatori di folle che restavano per tutta la loro vita nella stessa squadra? Si può ancora amare questo sport, il calcio, dove il denaro è sopra tutto, i giocatori assomigliano sempre più a delle star dello show-business e passano senza il minimo scrupolo alla corte del miglior offerente? Robert Redeker, celebre filosofo francese colpito da una fatwa per aver scritto, nel 2006, un articolo critico verso l’islam sulle pagine del Figaro, è anche un grande appassionato di calcio. E per le Éditions du Rocher ha appena pubblicato un saggio, “Peut-on encore aimer le football?”, in cui cerca di rispondere alle molte domande che si pongono i tifosi come lui, quelli che hanno conosciuto il calcio di Maradona, di Cruijff, Sócrates, Baggio, “le football d’avant”, come ha scritto questa settimana Éric Zemmour, il calcio di una volta, quando l’amore per la maglia non era sacrificato sull’altare del dio mercato.
“Il calcio, in generale, si è mercificato all’estremo e ha perso il suo slancio spirituale. Il commercio ha sostituito l’anima e assistiamo a uno sport sempre più tecnocratico”, dice al Foglio Redeker. Ma se è vero che le derive economiche del calcio-business sono sotto gli occhi di tutti – la Francia, con il brasiliano Neymar al Psg per 222 milioni di euro, ora già tentato dagli ammiccamenti milionari del Real Madrid, ha toccato il punto più basso – è vero anche che dietro alla schizofrenia dello sport prigioniero della finanza si nasconde sempre quel meraviglioso “ritorno dell’imprevedibile”, come lo chiama Redeker. Un ritorno che abbiamo toccato con mano poco tempo fa, con la vittoria epica della Roma contro il Barcellona per 3-0. “E’ stato l’esempio perfetto del ritorno dell’imprevedibile. Una partita dove mi è sembrato di tornare indietro di trenta quarant’anni”, dice Redeker. Lungo le pagine di questo libro appassionante trapela la nostalgia del calcio che fu, e l’amarezza di un tifoso romantico che non riesce a identificarsi nelle nuove star dello sport più amato del mondo. Anche dal punto di vista estetico. “Sono sempre sconvolto quando vedo i giocatori di oggi, tutti impomatati e tatuati come dei carcerati”, dice al Foglio Redeker, prima di aggiungere: “E’ un’estetica del ‘taulard’, del galeotto, che è lontana anni luce da quello che i calciatori rappresentavano quarant’anni fa. Rivera, Platini, Beckenbauer erano il simbolo dell’eleganza e della grazia. Ai loro tempi, soltanto i delinquenti si facevano quei tatuaggi che oggi vediamo ovunque sui campi di calcio”. Per Redeker, una delle partite più simboliche dei nostri tempi è stata la finale di Coppa di Francia tra Paris Saint-Germain e Les Herbiers: da una parte, la squadra del nomadismo, dei mercenari sradicati, del denaro, emblema del capitalismo globalizzato; dall’altra, il gruppo dei piccoli grandi sognatori, la forza della ruralità e delle radici, la Vandea che si ribella alla capitale della mondializzazione.
“Un tempo, mi piacevano molto il Saint-Étienne, o il Fc Sochaux, squadra legata al mondo operaio. Questi club erano in continuità con un terroir, con delle radici ben definite: rappresentavano lo spirito di una regione. Il Paris Saint-Germain, invece, è in continuità con la Borsa. E’ la squadra del CAC 40”, afferma Redeker. Ma allora si può ancora amare il calcio? “Lo si ama perché ha un rapporto con l’infanzia – conclude Redeker –. E’ la vera molla di ogni amore autentico per il calcio”.