Facce da Mondiale
Aspettando Dzagoev, il Godot del calcio russo
In questo Mondiale il numero 10 della Russia ha l'occasione, l'ennesima, per dimostrare che chi lo considerava un fenomeno non aveva torto
Con Russia - Arabia Saudita inizia oggi, giovedì 14 giugno 2018, il Mondiale russo. Ogni giorno il Foglio racconterà la storia di chi potrebbe, dovrebbe o forse soltanto vorrebbe essere protagonista di questa edizione della Coppa del mondo. Un viaggio faccia dopo faccia dentro le nazionale che si contenderanno il trofeo più ambito.
Taganrog, sud della Russia con affaccio sul mare d’Azov, duecentotrentamila anime e una statua di Garibaldi. E’ gennaio, quello del 2009 e lì il freddo è meno intenso. Il posto buono per preparare la stagione senza sfibrarsi dal sottozero. Il Cska Mosca, la squadra che fu dell’Armata rossa e che ora invece lo è solo per un dieci per cento, è già al campo dall’allenamento. I giocatori scherzano e palleggiano, qualcuno è ancora sdraiato in panchina a maledire la fine delle ferie. Si ricompongono in un attimo all’arrivo di due occhi severi e rivolti all’ingiù e a baffi d’un tempo passato, rigidi e autoritari. Valerij Gazzaev è uno a cui piace scherzare, ma fuori dal campo. Quando non c’è lo chiamano Maršal, maresciallo, che almeno in Russia vuol dire Igor Sergeyev, l’ex ministro della Difesa che dovette mantenere la ferrea disciplina delle armate nel momento del passaggio tra comunismo e post comunismo. “Dov’è Alan?”. La voce roca dell’allenatore chiama tutti al silenzio. “Era qui”, gli rispondono, “siamo usciti dallo spogliatoio insieme”. “Non lo vedo”. Lo chiamano, lo cercano, contattano pure il guardiano della struttura, non si sa mai lo abbia visto uscire. Niente da fare. Passa una mezz’ora, Gazzaev ha iniziato comunque il discorso di inizio stagione, quando ecco che appare Alan. Passeggia palleggiando. Gli chiedono dove si fosse cacciato. “Mister, c’era un magazziniere che è delle mie zone. Abbiamo parlato di come va laggiù”. Gazzaev gli dice di sbrigarsi, riprende il discorso da dove l’aveva interrotto, poi inizia a far correre i suoi. Solo allora va a parlare con il dirigente del campo che conferma tutto. Il magazziniere è di Beslan proprio come Alan, il suo numero 10.
Ci sono episodi che lasciano il tempo che trovano, altri che sono immagine di un’esistenza. Quello di Taganrog rientra nella seconda categoria. Perché quell’attesa è in piccolo la stessa di un’intera nazione, la Russia, per un giocatore che sembrava poter fare la storia del calcio nazionale, ma che ancora, per un motivo o per l’altro, non l’ha fatta. “Uno così”, uno come Alan Dzagoev, “ne nasce uno ogni cinquant’anni”, commentò il grande attaccante della nazionale sovietica (e capocannoniere dell’Europeo del 1960 vinto dall’Urss) Ventin Koz'mič Ivanov il giorno della prima convocazione in nazionale del ragazzo nato in Ossezia. “Ha corsa, ha un fisico che non lo butti a terra, ha dribbling e un gran tiro, soprattutto vede l’azione prima ancora che questa si sviluppi sul campo di gioco. Certo, deve metterci più cattiveria, ma si farà. Gli manca solo mezzo passo per la storia”. E’ dall'11 ottobre 2008, giorno del debutto con la maglia della nazionale, che da Mosca alle steppe aspettano questo mezzo passo. Un mezzo passo che però ancora non arriva, quello che sta trasformando Dzagoev in Godot.
Un mezzo passo che in realtà è una danza, un avanti e indietro su di una mattonella, quella che è soglia e discrimine, che è accesso al mondo dei grandi calciatori. Una mattonella che però Dzagoev non ha ancora lasciato definitamente. E sì che di occasioni ne ha avute, da quando nel 2010 il suo nome finì nella lista dei 101 talenti da tenere d’occhio che stilava ogni anno dalla prestigiosa rivista spagnola Don Balon. All’epoca il russo era considerato quanto di meglio “la scuola ex sovietica aveva da proporre”, un centrocampista “universale, che trova sulla trequarti la sua posizione naturale, ma che può destreggiarsi con abilità anche sulle fasce e nella metà campo, dotato di piedi e visione di gioco fuori dal comune”. Un anno dopo, il 27 settembre 2011, la punizione dell'1 a 2 contro l’Inter nei gironi di Champions League (i nerazzurri vinceranno poi 2-3) al Lužniki Stadion, oltre alle due magie che scombussolarono Javier Zanetti, sembrarono essere la rampa di lancio verso i più importanti palcoscenici calcistici mondiali.
Non andò così.
Dopo quella partita al Cska arrivarono diverse persone a chiedere informazioni su Alan. I media russi raccontarono di emissari di Chelsea, Manchester United, Atletico Madrid, Barcellona, Real Madrid, Bayern Monaco, Porto e Juventus atterrati a Mosca per vederlo giocare. E tutti se ne tornarono a casa con giudizi eccellenti. Dzagoev dribblava e creava occasioni, ogni tanto segnava, spesso apriva le porte agli attaccanti per il gol. Se Doumbia segnò quell’anno 37 gol e Wagner Love 13 in metà stagione, “molto del merito dev’essere attribuito al numero 10”, scrisse Jonathan Wilson sul Guardian.
Ma tanto interesse non partorì altro che grandi complimenti e report entusiastici. Dzagoev da potenziale campione da trasferire in Europa si trasformò nella Bella di Torriglia, quella che “tutti la vogliono, ma nessuno se la piglia”. Rimase al Cska, un po’ per scelta e un po’ per necessità. Perché quando nel settembre del 2010 si presentò il Chelsea di Roman Abramovich con un’offerta di qualche decina di milioni, Dzagoev chiese di aspettare. Fu il suo allenatore a suggerirglielo: “Hai venti anni, devi crescere, per l’Europa c’è tempo”. Aspettò, nonostante a Londra avrebbe trovato Carlo Ancelotti in panchina e il suo idolo, Frank Lampard. Ma l’anno successivo, nel 2011, Ancelotti fu sostituito da Villas Boas, che avrebbe abbracciato volentieri il talento russo, ma solo da gennaio. “Non è ancora pronto”, disse. Il tecnico portoghese mise in fila una serie di figuracce in Premier League e Abramovich decise che era meglio non esaudire le sue richieste. Il presidente esonerò Villas Boas, che non spese parole affettuose nei confronti del suo ex datore di lavoro. Poi, nel 2013, il tecnico portoghese si accasò al Tottenham, con una richiesta: “Compratemi Dzagoev”. Nulla di fatto ancora, perché il proprietario del Chelsea chiamò Mosca e impose agli amici del Cska una sorta di diktat: cedetelo a chi volete, ma non a Villas Boas. E così Alan rimase ancora lì, ad accogliere gli applausi del Cska Arena, a riscaldare con la sua classe il gelo di Mosca. Interpellato da Russia Today, Dzagoev alzò le spalle, sorrise, rispose: "C'è di peggio. Alla fine a Mosca sto bene". Non mentiva. A Mosca difficilmente avrebbe rinunciato. E poi, che ci sia di peggio di un trasferimento mancato, il giovane Alan lo sa molto bene. L'ha vissuto sulla sua pelle, o quasi. Perché quando il primo settembre del 2004 i fondamentalisti islamici ceceni fecero irruzione nella scuola Numero 1 di Beslan, diversi suoi amici erano là dentro. Dei 1.200 sequestrati furono 333 quelli che morirono in seguito all'irruzione dell'esercito russo e 187 erano minorenni. Alan non c'era, non era la sua scuola, ma il ricordo di chi non ha più visto ancora si vede nei suoi occhi tristi, nel suo sorriso tirato, in quel suo "del passato non parlo", dietro al quale si nasconde. Una tristezza che ogni tanto si palesa anche in campo, quando dopo un gol guarda il cielo, si batte il petto, decide di ricordare, e nel farlo si gode il presente. E questo gli basta.
E così il suo sguardo malinconico è rimasto a osservare Patriarshy prudy, i suoi colori sono rimasti il rosso il blu dell'Armejcy, gli uomini dell'esercito. Adam li veste ancora oggi come un tempo, con la stessa voglia di sentirsi importante per i suoi tifosi, "perché questo è il nostro mestiere: dare il massimo per chi rinuncia a tanto per andare a tifare una squadra", disse nel 2012. E forse perché "Dzagoev gioca a calcio non per fama e denaro, ma perché il calcio è la sua vita", disse Yuri Oskin, l'allenatore dell'accademia Igor Rodkin che lo lanciò.
Da Gazzaev a Leonid Sluckij, passando per Zico e Juande Ramos, chiunque si è seduto sulla panchina del Cska ha parlato di Dzagoev come di un professionista irreprensibile, "capace di sputare l'anima per la squadra", come disse Sluckij. Un dieci che "si sacrifica, che si distingua dagli altri giocatori perché non ha mai paura di ricevere il pallone, dribblare, assumersi responsabilità", disse l'ex centrocampista della nazionale russa Alexander Mostovoi. La stella di Mosca, periferia del mondo del calcio, continua a brillare, e a fregarsene.