Facce da Mondiale
L'uomo che fermava un paese, Giorgian De Arrascaeta
Il numero 10 dell'Uruguay è il talento del futuro del paese sudamericano. Gioca in Brasile e (per ora) all'Europa preferisce pescare
Una squadra di un paesino di duemilacinquecento persone per forza di cose non può reggere il confronto con una di un paese di venticinquemila: questione di numeri, di possibilità di scelta. E così quando la formazione dell'under 15 del Unidos de Nuevo Berlin ritornò da Fray Bentos con in saccoccia un 1-2 si gridò al miracolo, una cosa da non credere. La domenica seguente alle dieci del mattino un paese intero si diede appuntamento al campo da gioco dove correvano quei ragazzini. A Nuovo Berlin, sponda destra del fiume Uruguay (anche perché a sinistra è già Argentina) e una storia nata da una colonia agricola tedesca, quella chiamata New Mehlem dai fratelli Richard e Karl Wendelstandt, c'erano strade deserte, bar chiusi, nessuno neppure alla funzione religiosa. Anche il prete non si era presentato, aveva lasciato un messaggio sulla porta: funzione alle tre. Sembrava uno scenario post atomico non fosse per quel chiasso che arrivava da avenida 25 de agosto. Gli occhi di tutti guardavano un giovanotto con tre anni meno degli altri, con il numero 8 sulla schiena e una palla che non si staccava dal piede mentre superava metà degli avversari. Quel giorno segnò tre gol. Suo padre esultò, poi si mise la mano in bocca e se la morse. A inizio stagione aveva promesso di dargli 5 dollari a ogni rete segnata e con quelle tre era arrivato a cinque in due partite. A fine stagione saranno 49.
Nuevo Berlin le domeniche iniziò a passarle così, al campo da gioco dell'Unidos, a vedere quello scricciolo di origini italiane che aveva un nome più grande di lui: Giorgian Daniel De Arrascaeta Benedetti. E quando al campo si presentò un signore con gli occhiali e i capelli arruffati da Montevideo quasi nessuno se ne accorse, ché gli occhi di tutti erano puntati su quel bimbo che con la palla tra i piedi sembrava divino, che correva, superava ragazzini come fossero birilli, segnava, ma solo quando doveva, perché attratto da quel gesto di calcistico altruismo che ancora è arte concessa ai più grandi: l'assist.
Tornato nella capitale l'uomo con gli occhiali e i capelli arruffati si diresse subito alla sede del Defensor Sporting. "Ascoltatemi, perché ho visto giocare un fenomeno". Dove?, gli chiesero. "A Nuevo Berlin". Si guardarono straniti, nemmeno sapevano dove fosse, lungo il fiume Uruguay c'erano d'altra parte solo pescatori. Decisero comunque di dargli retta e chiamarono il ragazzo. Una prova, una partita per vedere questo presunto fenomeno. E quando Juan Ahuntchain, il coordinatore delle giovanili dei Violeta, si trovò di fronte a questo ragazzino dalle gambe secche e dallo sguardo smarrito, iniziò a inveire per l'inutile lavoro extra. Poi la palla gli arrivò tra i piedi, due palleggi sbagliati. Stava quasi per andarsene quando quel microbo iniziò a combattere la timidezza. Nella partitella il piccolo Giorgian sistemò chiunque si trovò di fronte, dribbling, tunnel, piedi che sembravano di un'altra dimensione. "Resta una settimana", disse al padre. "Questo qui se non lo prendete siete matti", disse alla presidenza.
Il 21 ottobre 2012, a 18 anni, il debutto in campionato. Era il 63° e quello era il derby contro il Danubio. Il Defensor vinse 3-1. Fu la sua unica partita nel torneo d'Apertura, ma non per scelta tecnica, per necessità. Il piede destro, quello che usava meglio, gli aveva dato problemi dalla preparazione. Quando guarì non uscì più dal campo. Sessantacinque partite e diciotto gol in due anni. Quelli buoni per impressionare tutti, soprattutto il Cruzeiro, la squadra degli italiani di Brasile. Quattro milioni di euro per metà cartellino, più un gettone a presenza al Defensor per averlo subito. A Belo Horizonte presero per pazzi i dirigenti. Alla prima partita cambiarono idea. Rinvio dalla difesa, altissimo e a spiovere, palla che scende, che incoccia il piede dell'uruguayano e lì resta, finta di corpo, tunnel, avversario che scivola, mentre Giorgian lancia un suo avversario in porta, da solo, talmente da solo che questo sbaglia clamorosamente. Era 26 febbraio 2015, fase a gironi della Copa Libertadores, la Champions League sudamericana. Il meglio arriva però un mese e mezzo dopo e sempre in coppa. Scatto, movimento di bacino a mettere fuori tempo l'avversario, sombrero al marcatore, tiro. Fuori. Applausi. Solo un preambolo a quello che sarebbe successo dieci minuti dopo. Cross dalla sinistra, il numero 10 che si libera dalla marcatura, che calcola la traiettoria del pallone, che capisce che l'unico modo per spingere in rete quel traversone è fare l'impossibile. E l'impossibile accade: un passo in avanti, la gamba che sale e si destreggia in una rovesciata. Colpo di esterno. Gol. Il Mineirão esplode.
Un gol che fa perdere la testa a tutti ma che lascia tranquillo Giorgian: "Sono felice. Mi è andata bene". Gli chiedono quali sono i programmi per il futuro. Racconta: "Arrivare più avanti possibile nella Copa" (il Cruzeiro uscirà ai quarti di finale), poi un sospiro "e spero di avere un paio di giorni liberi per tornare a Nuevo Berlin, il mio paese, per salutare gli amici".
Gli ci vollero cinque mesi per ritornare al suo paesello. Quando mise di nuovo piede sulla riva del fiume Uruguay fu festa grande. Tutti al campetto a festeggiare, lì dove era cresciuto e cresciuto a tal punto che ora il campetto portava il suo nome. Poi in piazza a festeggiare, a mangiare tutti assieme la parrilla uruguaya, il piatto che preferisce. Saluti, selfie, una parola con tutti, poi con suo padre lungo il fiume per pescare.
A gennaio di quest'anno gli hanno chiesto se pensasse mai al calcio europeo dato l'interesse di Barcellona e Paris Saint Germain. Ha risposto: "Sinceramente no, il mio prossimo obbiettivo è tornare a Nuevo Berlin, ho un po' di amici da portare a pescare".
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA