Jorge Sampaoli (foto LaPresse)

Alle radici del fallimento del caos ordinato di Jorge Sampaoli

Giovanni Battistuzzi

L'Argentina rischia l'eliminazione ai gironi dei Mondiali e i giocatori hanno chiesto l'esonero del tecnico "filosofo" allievo di Bielsa. La lezione di Menotti: "Il calcio è questione di pratica, non di filosofia"

"Quando un cileno insegna calcio agli argentini va sempre a finire male". Osvaldo Soriano raccontava del più brutto Boca Junior della storia, quello guidato tra il 1971 e il 1972 per 273 giorni da Fernando Riera, il più grande allenatore cileno di tutti i tempi. Ottavo in campionato, pochi gol fatti, tanti subiti. Scrisse Soriano, all'epoca giornalista all'Opinión, che "a far tanta filosofia sono bravi in tanti, ma il calcio è poi anche pratica e la pratica è sotto gli occhi di tutti: una pratica sbagliata". Lo scriveva con una certa soddisfazione, perché la crisi del Boca era coincisa con la grande stagione del suo San Lorenzo de Almagro, due volte campione d'Argentina.

 

Riera filosofo del calcio lo era per davvero, uno che teorizzava il professionismo in anni nei quali, almeno in Sudamerica a vivere di calcio erano in pochi, uno che "ha stravolto il concetto dell'allenamento, lo ha reso moderno, predicava responsabilità e dignità, un calcio d'attacco che iniziava dalla difesa e diventava arrembaggio corale, dove tutti dovevano fare tutto", disse Arturo Salah, l'allenatore che portò il Cile al terzo posto nella Copa América del 1991. Una sorta di calcio totale ante litteram che però, una volta portato in Argentina, fece solo danni. Perché chiedere di fare il lavoro sporco a Hugo Curioni, il grande attaccante del Boca di quegli anni, e a Osvaldo Potente, che per Maradona fu un regista offensivo "incredibile", voleva dire, almeno per Soriano, "non capire i due princìpi del calcio argentino: garra e liberdad", ossia perseveranza agonistica e libertà di avere la palla al piede.

 

Una storia vecchia di quasi cinquant'anni che ritorna, che cambia il volto pacioccone e simpatico di Riera, in quello tondo e montalbaniano di Jorge Sampaoli. E poco importa che il ct dell'Argentina non sia cileno ma autoctono, per tutti Sampaoli rimene "el chileno", perché due stagioni al O'Higgins, tre all'Universidad de Chile e quattro anni alla guida della nazionale cilena sono un pedigree che non si dimentica. Almeno in Argentina. Come non si dimenticano le esternazioni che arrivarono nell'estate del 2013 dall'uomo con i tatuaggi che teneva in mano la Copa América, la prima nella storia del Cile: "E' una gioia indescrivibile. Una vittoria di un gruppo fantastico", "quella di un calcio che il mio paese non ha voluto capire". Il suo calcio, quello di Jorge Sampaoli, è quello di Marcelo Bielsa, maestro di Sampa e altro tecnico che in Argentina è stato spesso considerato solo un "Loco", un matto, piuttosto che un grande allenatore.

 

Sampaoli viene dalla scuola di Bielsa, del calcio iperoffensivo, dove il singolo non conta, ma contano invece la squadra, i movimenti, l'insieme degli interpreti. E' il tripudio della tattica, dell'idea che il miglior metodo per difendere è quello di tenere la palla lontano dalla propria area di rigore, di cercare il gol tramite il movimento di uomini e palla. "Si vince solo se undici persone sono in grado di giocare al pallone", diceva Bielsa. "Si vince solo se la squadra lavora da squadra, se ogni individualità si perde nel collettivo", gli fece eco Sampaoli. In pratica un socialismo calcistico. L'ideale se si ha per le mani giocatori di buon valore, diligenti e capaci di sacrificarsi per una causa comune. "Il calcio dell'Olanda è il migliore al mondo. L'Olanda gioca così perché nell'identità olandese esistono le basi sociali e psicologiche per questo. Il modo in cui una nazionale gioca rispecchia lo stato della società da cui proviene", spiegò Cesar Luis Menotti, l'allenatore dell'Argentina campione del Mondo nel 1978. "Noi non siamo l'Olanda, giochiamo un calcio meno bello che forse rappresenta una società meno evoluta di quella olandese. Però il Mondiale l'abbiamo vinto noi. Perché il calcio è questione di pratica, non di filosofia", soprattutto perché "in campo ci vanno i giocatori, e le idee sono solo un veicolo per sfruttare al meglio le caratteristiche migliori dei propri uomini". Menotti vinse grazie al pragmatismo di Passerella e all'individualità di Kempes. Gli altri uomini erano funzionali esclusivamente al loro talento.

 

E così, mentre ieri la Croazia si prendeva gioco dell'albiceleste, attaccava e segnava tre gol, lui si sbracciava, dava aria ai tatuaggi e urlava "lo schema, lo schema", ai propri giocatori. In quel momento Sampaoli forse si è mangiato le mani per aver preferito la via Bielsa alla via Menotti, per aver scelto la legge del gruppo piuttosto che quella di Messi. Il numero 10 messo lì come uno qualsiasi, svogliato, ingabbiato in sistemi di gioco non suoi, in movimenti che può fare, ma solo se lasciato libero di non avere un ruolo nell'orchestra, di essere primo violino e non arco tra gli archi. Pure Guardiola lo aveva capito: "Una squadra è un insieme di individualità che si devono integrare tra loro. Il mio Barcellona gioca d'insieme. Poi c'è Messi".

 

"Il calcio di Sampaoli è un'ode al sincronismo. Quando attacca, la palla si muove nel campo e incrocia sempre un giocatore in movimento, è un caos ordinatissimo. Quando difende, invece, la squadra si muove a ragnatela e blocca tutti i canali possibili e le linee di passaggio sono congestionate", scrisse il Times. Uno spettacolo tattico, con un unico insormontabile problema. "Se si gioca così si deve sperare di non avere grandi giocatori. Perché i grandi giocatori sono come i leoni, fanno pena dentro una gabbia", disse Carlos Bilardo, il ct che guidò l'Argentina alla vittoria del Mondiale 1986, a proposito della fallimentare Coppa del Mondo dell'albiceleste guidata da Bielsa nel 2010. "Maradona con me faceva Maradona, gli altri facevano quello che Maradona non poteva fare: correre per le altre parti del campo".

  

Sampaoli del pragmatismo se ne è sempre fregato, ha sempre voluto fare di testa sua, seguire la sua missione, quella di insegnare calcio, non di far giocare a calcio. Era il 2007, era in Perù e guidava lo Sporting Cristal, quando disse che "il calcio è una cosa semplice, la realizzazione di grandi idee. Noi giochiamo il miglior calcio del campionato, vincere o non vincere non è un problema, il calcio è fatto per far divertire la gente".

  

In Argentina però nessuno si diverte. E in campo gli argentini ancor meno.