Germania fatta fuori, il giorno della Grande Metafora è finalmente giunto
L’obitorio tedesco contro la Corea del sud e i pennelloni svedesi
L’ostinazione, non il talento – diceva Philip Roth. Ma in realtà nemmeno l’ostinazione, si dirà d’ora in poi a Kazan, città che fino a ieri a me evocava soltanto pagine di letteratura alta, la piena del Volga, gli sterletti dell’Ilek congelati, il barbutissimo scrittore Sergej Aksakov e le due stanze in cui abitava appena vi giunse da bambino, nella casa della moglie del capitano Aristov… Kazan che da oggi significherà anche altro – chiedo scusa se dalle vette tonfiamo al suolo, brutalmente e di culatta – cioè i novanta minuti di Corea del Sud-Germania, aka la squadra del tizio che frigna perché forse non gli accorceranno la leva contro la squadra rigorosamente hegeliana del portiere Manuel Neuer, che ricorderemo per aver salvato (in bagher e con l’aiuto degli dei, di una congiunzione astrale tripla e di un amuleto contro il malocchio) una palla insaponata che è stata l’unica vera occasione da gol del primo tempo – per il resto, più movimento nel lungometraggio muto di Warhol che inquadra l’Empire State Building per otto ore e mezza.
Messico-Svezia è la seconda partita che m’è toccato vedere, canale 20, giocata in quella stessa Ekaterinburg in cui il 17 luglio del 1918 fu sterminata la famiglia dello zar Nicola II, prestigioso bagno di sangue che battezzò la rivoluzione russa e generò un cartone animato Disney: sarà forse per questo che la luce del sole bagnava di irreali effusioni color gommagutta i volti dei 22 contendenti? (Spero che questa l’abbiate letta con attenzione. Sì? Bene, ora giudicate che vita faccio, se per 90 minuti sono stato costretto a pormi domande di caratura marzulliana per far passare un pomeriggio assediato dal retropensiero che questa simultaneità prima o poi mi ucciderà, queste partite a saltellare, tristi e morte al punto che non si capisce il senso, per Mediaset, di offrirne – e se ne vantano – ventiquattro angolazioni, ossia ventiquattro modi per dire “nulla”; per fortuna almeno le inquadrature degli spalti offrono sempre qualcosa: la solita parata psicotica di travestiti entusiasti).
Ma passiamo al fó-fóbal, come disse Niccolò Tartaglia ad Antonio del Fiore dopo averlo annichilito in disfida, invitandolo amichevolmente al pub. E andiamo direttamente all’intervallo, quando Bernardo Corradi, Maestro di Perifrasi, considerava che quella della Germania era stata “una gara di presidio” e Arrigo Sacchi, sguardo inabissato in acque interrogative, di certo svegliato bruscamente poco prima, biascicava per i soli addetti ai lavori che la partita… bah, mica male, sì, ma boh, nemmeno bene. (Poi Giorgia Rossi mi sorrideva e io mi lasciavo irretire da momentanee malie di fuga sentimentale, ma lo so, per me non ci sono né fuga né gioia, e dell’amore solo l’assenza).
Il secondo tempo cominciava con un gol di un pennellone svedese generato più che altro da una siesta difensiva messicana, poi ricordo poco e male, una barella, gente a terra, e un rigore-Asimov per la Svezia trasformato da Vita-nei-boschi Grandqvist. Ma intendiamoci, un gran lusso, un carnevale delle Barbados con Rihanna che si dimena vestita da sirena mannara, rispetto all’obitorio Corea del Sud-Germania, col suo gioco a gambe e neuroni penduli. Loewe, sbranato da consapevolezze di esclusione vieppiù concrete, ciondolava a bordo campo come un parrucchiere di Jean Louis David davanti al negozio vuoto, e intanto, di là, la Svezia faceva il terzo (non l’ho visto ma ci dormirò). Di qua, a causa di una pallonata sui santissimi, solo Jung che rantolava a terra tra gli sguardi malvagi dei tedeschi, cui veniva annunciato un trimestre di recupero. Poi la Corea segnava di sorpresa in fuorigioco, i tedeschi scioccati protestavano ma alla fine – emozione a Kazan! – l’arbitro convalidava. La Germania aveva sei minuti per fare due gol. Ma non li faceva. Sugli spalti rotolava il sole di Ekaterinburg e la Corea dei brocchi, incredibilmente, raddoppiava. Germania fuori. Adepti della grande metafora, è il vostro giorno. Solo una raccomandazione: non accalcatevi.