LeBron James ai Lakers è una storia esemplare, migliore dell'America stessa

Stefano Pistolini

Il giocatore di basket più forte del mondo alla terza “Decision”

Nella lampante conferma del concetto “una parte per il tutto” – un singolo atleta contiene in se l’intero senso di uno sport – LeBron James, il giocatore di pallacanestro Nba più forte in attività, ha replicato per la terza volta lo show di cui detiene il copyright: The Decision. Le precedenti edizioni si erano tenute – con una tensione di spessore diverso – nel 2010, quando aveva lasciato per la prima volta la squadra del suo stato, i Cleveland Cavaliers, per prendere la strada di Miami e per vincere finalmente il primo titolo Nba.

  

  

All’epoca si parlò di tradimento, di abbandono delle radici, di scelta opportunistica. Ma LeBron realizzò quello che si era proposto: vinse due titoli, giocò quattro finali e infine, nel 2014, prese la seconda Decision: il figliol prodigo torna a casa, gridarono a Cleveland, accogliendolo con gli onori di un sovrano. LeBron rifece il miracolo: proiettò una modesta squadra di provincia ai vertici del campionato, garantendole 4 finali nazionali e un titolo Nba, il primo vinto dalla città in mezzo secolo. Peccato che, sulla sua strada, LeBron, nel titanico gesto di caricarsi sulle spalle il sistema agonistico dei Cavaliers, abbia trovato una delle migliori formazioni che abbiano mai disputato questo campionato: i Golden State Warriors. Le finali dello scorso giugno hanno fatto capire a LeBron, ormai arrivato a 33 anni, che non a Cleveland poteva sperare di vincere ancora. Da ciò la Decision numero tre, ovvero la scelta di vestire quella che sarà la terza e ultima maglia della sua carriera: quella dei Los Angeles Lakers, squadra gloriosissima, ultimamente un po’ decadente, ma in piena fase di ricostruzione, attraverso un pool direttivo di prim’ordine, assortito dalla giovane proprietaria Jeanie Buss, dal general manager Magic Johnson (una personalità a cui nessuno può dire di no) e dal brillante e molto glam allenatore Luke Walton.

 

A LeBron, ex ragazzo povero venuto su tra i miasmi della proletaria Akron, Ohio, il fascino della good life, che aveva già assaporato a Miami, piace da sempre. Però, col passare degli anni, James si è rivelato, oltre che un leader naturale, anche un uomo di notevole lucidità e ragionevolezza. Per cui ha fatto le cose per bene, con lo stile e l’aplomb di chi non deve dare spiegazioni, perché tutti sanno che LeBron non solo è il migliore sul campo, ma è anche la persona che meglio conosce lo spirito più profondo di questo sport, di questa industria, di questa straordinaria messinscena.

 

Con uno stipendio di 154 milioni di dollari in 4 anni, è andato là dove gli piace, ma anche dov’era giusto che andasse: nella città dove possiede due bellissime ville, dove i suoi figli possono completare bene gli studi e la moglie godere di una vita favolosa, dove forse il maggiore dei suoi pargoli potrebbe perfino, anche solo per una stagione, calcare il parquet Nba al suo fianco (immaginate lo show!) e dove la configurazione estetica di questa rappresentazione planetaria disegna il suo acme. Giocherà dove hanno regnato Wilt, Shaq e Kobe, la classe verticalmente divina della pallacanestro. Al tempo stesso, smalterà la piattaforma pubblica sulla quale il suo personaggio continuerà a brillare una volta appese le Nike al chiodo. Sarà un viale del tramonto luminoso e pavimentato del suo perfezionismo, che ne farà ancor più l’atleta top del mondo, il dominatore di un campionato di superuomini, ma anche la chioccia di una covata talentuosa che, grazie a lui, riprenderà il controllo di una lega nella quale i Lakers a lungo hanno primeggiato. La sceneggiatura di questa vicenda è inappuntabile. Non è una sorpresa: un po’ perché quando in circolazione c’è LeBron, le cose vanno sempre nel verso giusto. Un po’ perché la meraviglia dello sport professionistico americano è quella di saper produrre, oltre a capolavori agonistici, delle storie esemplari. Dove tutte le tessere si sistemano al posto giusto e lo spettacolo di anno in anno è migliore. Se solo la nazione che ha inventato questo splendore continuasse ad avere la sua stessa qualità (insomma: l’Nba è meglio dell’America. Strano, no?).