Altalena Parma
Cadute e resurrezioni, lo psicodramma di una provinciale di lusso. Oggi la riconquista della serie A è appesa a tre sciagurati sms
Chi volesse contemplare l’effetto che fa il passare in pochi giorni dalla più sfrenata felicità alla più cupa preoccupazione, con timor di prossima disperazione, dovrebbe venire a Parma e guardare in faccia i tifosi della locale squadra di football. Tra pochi giorni, forse già martedì, il tribunale federale del calcio emetterà la sentenza nel processo contro il Parma, accusato di tentato illecito riguardo all’ultima gara di campionato contro lo Spezia, e c’è il rischio che la storica promozione in serie A (terza promozione consecutiva, impresa mai riuscita a nessuno) venga revocata. In caso di condanna il Parma ahimè, Dio non voglia, potrebbe anche essere rimandato in B. E per il calcio parmigiano sarebbe il terzo patatrac in quindici anni.
“Ehi Pippein non rompete il cazzein mi raccomando”: un giocatore ha scritto a un collega dello Spezia prima dell’ultima partita
Disperazione nella disperazione, un’eventuale condanna sarebbe dovuta non a una vera mascalzonata – se così fosse, la si potrebbe anzi dovrebbe accettare – ma a tre sciagurati sms che un giocatore, Emanuele Calaiò, ha inviato in rapida sequenza, qualche giorno prima della partita, a un collega dello Spezia, Filippo De Col, suo compagno di squadra (e si presume amico) fino a due anni fa. Perché sciagurati? Il lettore ne giudichi il tenore: “Ehi Pippein non rompete il cazzein mi raccomando amico mio” (primo sms); “Dillo anche a Claudiein” (secondo); “Soprattutto col rapporto che avete con me” (terzo). Il giocatore dello Spezia, ricevutili, ha informato subito la sua società, e quindi la Procura federale: la quale, con le antenne più tese che mai, ha seguito la partita in questione, Spezia-Parma, finita 0-2. Dopo di che, la Procura federale ha convocato e interrogato Calaiò e si è convinta di due cose: 1) la partita è stata regolare; 2) la società Parma Calcio non sapeva nulla di quegli sms. Ma dura lex sed lex, anzi durissima e forse pure un po’ assurda lex, quella del calcio, la quale riconosce la “responsabilità oggettiva” della società per ogni atto dei suoi tesserati. Così, il Parma Calcio è stato rinviato a giudizio: e a nulla valga il fatto che, se anche avesse voluto, non avrebbe potuto metter becco nei telefonini dei propri giocatori, perché se l’avesse fatto sarebbe incorso in una condanna dall’altra legge, quella ordinaria. Insomma un guazzabuglio dove tutto torna tranne la logica. A Parma diventano matti. “Ma come si può pensare”, si chiedono, “che uno compri una partita in questo modo? Che corrompa gli avversari senza prometter loro neppure un culatello? Che sia così idiota da lasciar traccia con un sms?”. E non diciamo che cosa farebbero, i tifosi, se avessero a incrociar per strada questo Calaiò, del quale s’è peraltro persa ogni traccia.
Per capire l’angoscia che c’è in città, va spiegato anzitutto che questa non è una banale città. E’ Parma. Fu capitale di un Ducato, perdio. E il calcio è anche il segno di una supremazia territoriale. Quando, nel 1990, il Parma conquistò matematicamente la promozione in serie A battendo per 2-0 la Reggiana, dalla curva parmigiana sbucò un enorme cubo: stava a significare la spigolosa forma del cranio di quelli di Reggio Emilia, i quali per quelli di Parma sono “teste quadre”. Dalla curva ospite si replicò con uno striscione: “bagoloni”, che vuol dire spacconi, contaballe, sbruffoni, smargiassi, spandoni di grandeur.
Dopo Tanzi, Ghirardi, costretto a portare i libri in tribunale. Gli imprenditori locali, che fanno ripartire la squadra, e i cinesi
Ma il Parma, di lì a poco, una grandeur l’avrebbe vissuta davvero. Dalla fine degli anni Ottanta era di Calisto Tanzi, patron di Parmalat, quindi creatore di un colosso, anche se non di Parma bensì di Collecchio, quindi non parmigiano ma parmense, e per questo guardato con un po’ di sussiego in certi salotti buoni della capitale del Ducato. In ogni caso Calisto, parmigiano o parmense che fosse, di città o di campagna che fosse, chiamato da qualcuno con sussiego “il casaro”, era un vincente. Lo aveva già dimostrato nella pallavolo e nella Formula Uno, e stava per fare del Parma Calcio un caso internazionale. Tanto per cominciare, per festeggiare la serie A portò in dote il portiere del Brasile, Taffarel, e fu un colpo a effetto perché non era usuale acquistare portieri stranieri, brasiliani tantomeno. Insomma il colpo di mercato fece subito parlare. D’altronde la grandeur di Tanzi si sarebbe poi manifestata, per anni e anni, proprio nelle campagne acquisti. Uno dietro l’altro, arrivarono giocatori formidabili che fecero dei crociati uno squadrone in grado di vincere otto coppe fra italiane ed europee, battendo la Juventus in due finali, e sfiorando vari scudetti d’un soffio, o forse è meglio dire d’un fischio, perché qui a Parma ricordano ancora, rosicando, un arbitro che annullò contro i bianconeri, a Torino, un gol di Cannavaro per “fallo di confusione”. Mah.
Con Scala, Ancelotti e Malesani il Parma di Tanzi dava spettacolo. A un certo punto c’era in campo una squadra con Buffon, Thuram, Cannavaro, Sensini, Fuser, Boghossian, Dino Baggio, Veron, Chiesa e Crespo, e qui molti dicono che solo Malesani poteva riuscire nell’impresa di non vincere lo scudetto: ma son cattiverie, perché Malesani resta nella storia del Parma come l’allenatore che portò a casa tre coppe in cento giorni.
L’apice della grandeur, quanto a colpi di mercato, fu nell’estate del 1995, quando Tanzi portò Hristo Stoickov, bulgaro, trequartista, pallone d’oro, testa matta. Stoickov fu presentato in pompa magna allo stadio del Parma – il Tardini, antica e magnifica struttura in centro città – davanti a cinquemila spettatori. A Parma non s’era mai fatta una cosa del genere e la gente si sentiva in paradiso. Ma Stoickov, che veniva dal Barcellona ed era abituato al Camp Nou, se ne uscì con una gaffe mortale: “Complimenti, avete un bel campo d’allenamento”. Il cattivo giorno si vedeva dal mattino e infatti Stoickov, a giocare oltre che a parlare, fu una grossa delusione. Più un botto mediatico che un rinforzo per la squadra.
Ben diversa fortuna avrebbe potuto avere un altro colpo di mercato che il direttore sportivo Doriano Tosi – un parmense di Sorbolo – aveva messo a segno nell’estate del 2003. Tosi si presentò alla sede di Collecchio con un pre-contratto con il quale il Parma acquistava, dallo Sporting Lisbona e per nove milioni di euro, un giovanotto che si chiamava Cristiano Ronaldo. Il pre-contratto doveva essere convalidato entro 72 ore. Ma Stefano Tanzi, figlio di Calisto e presidente della squadra, su ordine del padre bloccò tutto: “Mi spiace Doriano, ma non è più tempo per certe spese”. Era, come s’è detto, il 2003 e foschissime nubi si addensavano su Collecchio. Stava per concretizzarsi il primo dei tre patatrac di cui si diceva all’inizio: quello della Parmalat.
Un portiere brasiliano. Thuram, Veron, Crespo in squadra, e poi il botto mediatico Stoickov. La grandeur degli anni 90 con Tanzi
Forse chissà, Calisto da anni avvertiva qualcosa di strano, un brivido sottile simile a un presagio. Aveva fatto dismettere – contro il parere dei tifosi, che le amavano e le amano tuttora – le storiche maglie bianche crociate di nero. Dicono, ma forse è una diceria, che per il patron quelle maglie portavano sfiga. Sta di fatto che a Tanzi non garbava vedere il nome Parmalat steso su una croce. La foto della squadra gli pareva un camposanto. Così, fece sostituire le maglie crociate con quelle giallo-blu a strisce orizzontali, perché il giallo e il blu sono i colori di Parma. Ma maglie o non maglie, la ruota stava cominciando a girare storta, e alla fine di quel 2003 invece di Cristiano Ronaldo negli spogliatoi entrò uno Stefano Tanzi in lacrime: “Siete tutti liberi, hanno arrestato mio padre, non abbiamo più soldi”, disse a Cesare Prandelli e ai giocatori. La Parmalat, l’azienda che aveva inventato il latte nel Tetra Pak e l’UHT, il “gioiellino”, andava a ramengo, travolta dallo scandalo dei bond farlocchi. Ma restava la squadra di calcio. Enrico Bondi, commissario straordinario per la Parmalat, si prese in carico pure il pallone e cominciò a vendere i pezzi pregiati per far cassa. Prandelli fu bravo a chiudere comunque bene il campionato, con un quinto posto. Ma prima o poi bisognava staccare la squadra dalla Parmalat. Bisognava vendere. E per vendere bisognava trovare un acquirente.
L’uomo del destino sembrò essere un giovane imprenditore bresciano, Tommaso Ghirardi. Diventò proprietario del Parma nel gennaio del 2007, con sei mesi di ritardo. Ci aveva infatti già provato nell’estate precedente, quella del 2006, l’estate di Calciopoli, di Moggi e della Juve in B. Di fronte a tanto casino la madre, che era poi quella con i soldi, l’aveva scongiurato di desistere: “Tommaso non possiamo entrare in un ambiente così marcio”, gli disse. Parole che fanno sorridere oggi i parmigiani, i quali pensano che, se qualcosa di marcio ci fu nel mondo del calcio, fu proprio la gestione Ghirardi. Di lui, di questo presidente giovane, sfortunato e soprattutto non parmigiano – e neppure parmense! – si raccontano cose brutte, in città, e sono probabilmente racconti ingenerosi, figli del gusto inerte del linciaggio con cui ci si suole accanire sui vinti: d’altra parte, illustri personaggi di Parma erano già riusciti, qualche anno prima, a prendere le distanze perfino da Calisto Tanzi dopo l’arresto: “Mai frequentato”, dissero i maramaldi. Mancava dicessero: “Mai conosciuto”. Calisto chi?
Sta di fatto, pettegolezzi o no, che il Parma di Ghirardi ebbe vita travagliata. Il primo anno se la cavò con una salvezza inaspettata, timbrata dal gentleman Claudio Ranieri. L’anno dopo però retrocesse, in una domenica di pioggia in cui al Tardini, con una doppietta memorabile in pochi minuti, Zlatan Ibrahimovic, entrato mezzo zoppo dalla panchina, regalò lo scudetto all’Inter di Mancini. Maledetta domenica per il Parma, maledetta e grottesca. Sulla sua panchina sedeva Andrea Manzo, passato alla storia come “allenatore per una domenica”. Ghirardi lo aveva promosso dalle giovanili alla prima squadra alla vigilia di quell’ultima e decisiva sfida, licenziando Hector Cuper per il motivo probabilmente più assurdo nella storia degli esoneri. Cuper, sei anni prima, allenando l’Inter, aveva perso lo scudetto all’ultima giornata, nel fatidico 5 maggio: e Ghirardi pensò che forse chissà, nell’inconscio di questo argentino perbene ma sfortunato ci fosse il desiderio di risarcire i nerazzurri. Roba da matti, ma roba da Ghirardi.
“Mi spiace, ma non è più tempo per certe spese”, si sentì dire nel 2003 il ds con in mano il pre-contratto per un giovane Cristiano Ronaldo
Il Parma sarebbe comunque tornato subito in A con mister Guidolin (quanti grandi allenatori sono passati dal Tardini): ma la sua vita sarebbe stata d’allora in poi agra, neppure lontana parente della grandeur tanziana. A fare la squadra era arrivato, dall’Udinese, un uomo che a Parma oggi vedono come il fumo negli occhi, Pietro Leonardi: prima direttore sportivo, poi amministratore delegato. “Tu continua a fare il presidente e non preoccuparti della squadra, agli acquisti ci penso io”, aveva detto Leonardi a Ghirardi. Mal ne incolse a tutti e due. Il Parma zoppicava in campo, ma soprattutto in banca. Paradossalmente il crac arrivò nell’anno del miglior piazzamento sportivo, il 2015. La squadra, allenata da Roberto Donadoni, si qualificò per la coppa Uefa, ma furono proprio i giudici del calcio europeo ad alzare il velo sull’allegra gestione e a costringere Ghirardi a portare i libri in tribunale. Era il mese di marzo e arrivò, per la squadra della capitale del Ducato, il secondo mortale fallimento: dopo il Parma di Tanzi, quello di Ghirardi.
Ma per quanto sia banale banalissimo dirlo, solo chi cade può risorgere. Nel 2015 il Parma Calcio è stato reinventato, da zero, da appassionati che si trovavano al bar, e che sono riusciti a coinvolgere alcuni fra i più grossi imprenditori della città per mettere insieme una squadra che potesse ripartire dalla serie D: Guido Barilla, Paolo Pizzarotti, Giampaolo Dallara, Angelo Gandolfi, Mauro Del Rio, Giacomo Malmesi, Marco Ferrari. Da qualche mese il Parma 1913 è al sessanta per cento dei soliti cinesi, perché la serie A è troppo onerosa anche per chi ama la propria città: ma gli ultimi tre anni raccontano di un miracolo che non ha precedenti, 11.000 abbonati in serie D e tre promozioni di fila, fino al ritorno in serie A. Ora una condanna avrebbe ripercussioni drammatiche, e non ce ne si potrebbe capacitare. Qui a Parma si dice che sarebbe una colossale ingiustizia. Perché poi, andiamo: retrocedere per un cazzein?