I mondiali senza l'Italia e tre storie sul calcio da leggere
Consigli di lettura per superare la noia di un lungo giorno senza partite
Per anni era sempre andata allo stesso modo, quasi ci fosse un cerimoniale da rispettare. Ci si trovava almeno una mezz’ora prima della diretta, si stappavano le birre, ci si scambiavano impressioni, sensazioni, speranze, chiacchiere generiche. Poi iniziavano novanta minuti di altre birre, imprecazioni ed esultanze, maledizioni e urla. Infine c’era il tempo dei commenti, dell’ultima bevuta, il tempo di smaltire gioie o delusioni. Accadeva ogni quattro anni. Era il Mondiale con l’Italia, una specie di sagra paesana del calcio alla quale partecipava anche chi di solito il calcio non lo frequentava spesso. Ché giocava la Nazionale, ché era la Coppa del mondo e tanto bastava. Un po’ come funziona con le feste popolari che richiamano anche chi solitamente in osteria o al bar non ci passa mai, chi insomma si tiene lontano da quei luoghi di aggregazione paesana.
Per anni, ogni quattro anni, è andata così. Quest’estate no, è andata e andrà diversamente. Perché l’Italia non c’è, è rimasta a Milano, a quella sciagurata partita con la Svezia. Se ne sono accorti tutti durante i gironi e con l’inizio della fase a eliminazione diretta nulla è cambiato. Poco male diranno i calciofili, tanto è da un po’ che i gruppi non li passiamo. Poco male diranno i non appassionati, più tempo per fare altro.
Quando però il tempo abbonda, si rischia di annoiarsi. Specie d’estate, specie se in questo periodo si sente la nostalgia del campionato e ci sono i Mondiali che, ahinoi, si fanno anche senza l’Italia. Così, per impiegare quelle ore che il cerimoniale mancato lascia scoperte, si può aprire un libro, magari che parli di calcio, perché in fondo va anche bene così, almeno si può dire che un libro quest’anno lo si è letto.
Il massimo per tempistica e doverosa ricerca di nostalgia è “Giro del mondo in una coppa” di Stefano Bizzotto (Il Saggiatore, 331 pp., 17 euro). Di cosa parla lo dice in sintesi il sottotitolo: “Partite dimenticate, momenti indimenticabili dell’avventura mondiale”. Ci sono ventuno capitoli, uno per ogni edizione della Coppa del mondo. Più uno, dedicato ai “senza Mondiale”. Ci sono ventuno storie che raccontano una competizione che a noi sembra scontata, ma che scontata non è. Perché nel 1930, l’anno della prima edizione, mica era semplice organizzare un torneo che metteva di fronte selezioni nazionali di cinque continenti. Ci sono imprese, fenomeni e giocatori normali, frammenti di mondo pallonaro che tutti conoscono, altri che si scoprono (forse) per la prima volta. Ci sono le vittorie dell’Italia, i quattro Mondiali portati a casa, le sconfitte dell’Italia, come quella contro la Corea del nord nel 1966. Ci sono i gol di Pelé e Maradona, non potevano mancare, i dribbling di Garrincha, gli interventi di Luisito Monti e di Liliam Thuram, i lampi di Andreas Iniesta e Juan Román Riquelme, la classe di Fritz Walter e di Leonidas. E c’è anche chi ai Mondiali non c’è mai andato, come Eduard Streltsov, fuoriclasse sovietico finito nei gulag con un’accusa infamante, Alfredo Di Stefano e George Best, nati negli anni sbagliati, Valentino Mazzola e Duncan Edwards, vittime di aerei finiti male. Quello di Bizzotto è un libro di storia calcistica che si legge come fosse un romanzo. Appassiona, le storie si susseguono, a volte intrecciandosi, le pagine scorrono.
Un romanzo-romanzo è invece quello di Pierluigi Pardo. Si intitola “Lo stretto necessario” (Rizzoli, 379 pp., 19 euro) e con il calcio ha molto a che fare anche se di calcio non parla. E’ la storia di un pubblicitario alla ricerca di se stesso, di un viaggio per l’Italia, una fuga dal presente in cerca del passato, o forse una fuga sia dal presente che dal passato, che quando si parte, si inizia un’avventura, ci si allontana da entrambi. E’ la storia di Giulio, di un’estate che lui non dimenticherà, come noi non l’abbiamo ancora dimenticata: quella del 2006, dei Mondiali in Germania, quelli di Marcello Lippi e dei suoi uomini, di una coppa iniziata con il Ghana e finita con la Francia, con un urlo di Fabio Grosso. La Coppa alzata sotto il cielo di Berlino, la gente che riempie le strade, si getta nelle fontane. Un impazzimento generale che contiene altre storie, altri ricordi di una notte che non si può dimenticare, perché quella era la notte nella quale “siamo Campioni del mondo!”.
Ricordi di notti d’estate, di una coppa conquistata, di un tripudio popolare. Come quello di quarant’anni prima, anche se non era mondiale, ma europeo, anche se non c’era Fabio Cannavaro a tenere in mano il trofeo, ma Giacinto Facchetti. Eravamo nel 1968 e Francesco Caremani lo ripercorre in “Il Calcio sopra le barricate” (Bradipo libri, 187 pp., 15 euro). E’ un salto nel passato, un mescolarsi di voci e avvenimenti, di ricordi di chi era in campo in quella finale di Roma come Pietro Anastasi, Angelo Domenghini e Aristide Guarnieri, di chi l’ha vista, vissuta e festeggiata. Un racconto di quanto il calcio sia ancora, anche a cinquant’anni di distanza una memoria condivisa, un modo per raccontare quell’anno divenuto antonomasia di cambiamento. In un cambiamento inteso in maniera diversa, non ancora inflazionata dalla retorica dei nostri giorni.