Al bando gli arbitri
Per rinnegare la competenza degli altri ogni scusa è buona, compreso il caso Serena Williams
Aboliamo gli arbitri. Non tanto perché sono cornuti – cosa sulla quale soprassediamo da sempre, poiché cornuti lo siamo tutti, da Mastroianni in giù – quanto perché sono diventati sessisti e razzisti, obsoleti e inutili. Un vecchio adagio su di loro dice che “si comportano al meglio quando non li notiamo: se ne sentiamo parlare è perché hanno commesso un errore”, e lo ha ricordato Will Leitch sul New York Magazine, a proposito di Serena Williams che, alla finale degli US Open, quando s’è vista ammonire e levare un punto e poi anche un game da Carlos Ramos, appollaiato comodo comodo sulla sua torretta, mentre lei era sotto, a giocare nell’inferno delle aspettative degli altri, ha sbattuto la racchetta per terra e lo ha insultato. Un episodio che, secondo Leitch, dimostra come sia finito il tempo in cui l’arbitro era garante di imparzialità, giustizia e fairplay. Adesso, il mestiere è mal pagato, chi lo fa non riesce a prescindere dai propri pregiudizi (ci sono – naturalmente! – studi e dati che lo dimostrano) e soprattutto abusa (volontariamente o no) dell’insindacabilità delle proprie scelte.
Una stessa partita, arbitrata da due persone diverse, darebbe quasi certamente due esiti differenti. Se ne sono accorti tutti ed è per questo che nessuno li rispetta più: è arrivato il momento di mettere in campo, al posto loro, le tecnologie che già abbiamo a disposizione e che sono capaci di fare il loro lavoro molto meglio, cioè senza gli ineliminabili filtri delle opinioni, del giusto, dello sbagliato, dell’interpretazione personale di norme scritte per essere impersonali. E questo è il New York Magazine. Una volta riconosciuto che l’eccesso di discrezionalità non è un argomento peregrino né infondato, dobbiamo anche ammettere che in questa nuova insofferenza ci sono gli estremi di quella, più grande, verso l’autorità e verso l’altro, nel momento in cui la nostra visione della realtà inciampa nella sua, stride con la sua. Ovvero: il prossimo mi sta bene fintanto che la sua versione dei fatti non rappresenta un limite alla mia. La buona azione coincide o no con il rispetto della norma? La giustizia, dopotutto, è mobile e la parabola del buon Samaritano non dimostra nient’altro che questo: infrangere una norma può servire a crearne una migliore. Quando il New York Magazine scrive che alcuni arbitri non fanno valere alcune norme, scrive proprio questo: aggirare o infrangere la legge, a volte, agevola la giustizia, nel senso che rende giustizia al bene. Nel suo “Il bene e gli altri - Dante e un’etica per il nuovo millennio” (Bompiani), Filippo La Porta si domanda se non sia più efficace, nello sport che contiene tutti gli sport e cioè l’educazione dei propri figli, sostituire i concetti di buono e cattivo con quelli di reale e irreale, perché “contro la bomba atomica non esiste che la realtà”, come scrisse Elsa Morante; perché “la gioia altro non è che il sentimento della realtà”, come scrisse Simone Weil e perché, ancora Weil, “è bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose”.
Il bene, allora, riflette La Porta servendosi di Dante e Weil, deriva non dal riconoscimento del giusto, bensì da quello della realtà. La realtà è “la relazione con gli altri”, cioè il rapporto nel quale ciascuno esperisce i propri limiti e comprende che per superarli o arginare gli errori che ne conseguono, si deve affidarsi a chi è fuori da sé, al prossimo. E’ questa la base che giustifica figure di garanzia e vigilanza come gli arbitri, i giudici: il singolo non è sufficiente. Quello a cui, invece, assistiamo costantemente – e la riflessione del NYMag ne è un esempio perfetto – è l’idea che gli altri (i giudici?) siano superflui. E’ il pensionamento dell’istinto e della regola di affidarsi a qualcuno, suffragato dall’accusa preventiva: l’altro non prescinde da sé, dai suoi pregiudizi, dalle sue idee. Il prossimo, invece, è la sola porzione di realtà che ci è dato conoscere e, pertanto, è la nostra sola occasione per riuscire a prescindere da noi stessi, che siamo bolle chiuse dentro un incalcolabile numero di altre bolle.