Insigne Azzurro pallido? E' arrivata la cura di Ancelotti
A Napoli l'attaccante ha sempre dimostrato grandi doti tecniche ma raramente ha inciso in Nazionale. Ora però è cambiato l'allenatore. E Mancini spera nella svolta
Non c'è mai stata pace per Lorenzo Insigne. Quattro anni fa i tifosi del Napoli gli davano dello “sporco interista” e del “buffone”, dopo aver lanciato a terra la maglia a causa di una sostituzione. Undici mesi or sono si era invece ritrovato involontario capro espiatorio a causa delle incertezze di Gian Piero Ventura, che non aveva saputo assegnargli un ruolo in Svezia e che non lo aveva neppure fatto scendere in campo al ritorno dello spareggio a San Siro (incassando la replica di Daniele De Rossi, seduto in panchina: “Cosa metti me? Metti Insigne”), incassando la prima eliminazione dell'Italia a un Mondiale dopo sessanta anni.
Oggi Insigne si ritrova al centro dell'attenzione generale, almeno di chi spera in lui come ultimo baluardo allo strapotere Juventus. Lo fa assumendo soprattutto una dimensione che lo porta al di fuori della città in cui è nato e della squadra in cui è cresciuto. Perché a Napoli gli hanno sempre voluto bene, nonostante le contestazione ogni tanto riemergano dal sottosuolo, come i fischi incassati non più di sei mesi fa. Sanno di avere in casa un talento che pochi altri possiedono. Il problema di Insigne è stato, piuttosto, sempre fuori Napoli. Meglio: fuori del Napoli. Vero che a Foggia e a Pescara aveva vissuto stagioni fantastiche, ma era una vita fa. E se in Puglia bastava un tocco di classe per fare la differenza in serie C, a Pescara aveva ottenuto la promozione in A in una squadra allenata da Zdenek Zeman e che aveva Marco Verratti a centrocampo e Ciro Immobile in attacco.
Tornato a casa Insigne ha dimostrato sì grandi cose, rivelandosi però incapace di replicarle altrove. Con l'Italia, specialmente. Meglio: unicamente. L'azzurro sfolgorante di Napoli si è sempre trasformato in un azzurro pallido sotto ogni gestione tecnica. Questo perché Insigne era ingabbiato in un sistema di gioco che non poteva essere replicato fuori dei propri confini. E questo capitava soprattutto con il 4-3-3 di Maurizio Sarri e dell'attacco dei”piccoletti”, con Dries Mertens e José Maria Callejon a tenergli compagnia. Una fatica tale che, con l'Italia, gli capitava non soltanto di ritrovarsi tagliato dalle dinamiche del gioco ma anche di mostrare qualcosa che fosse più degno di una conclusione sballata dalla distanza.
A Insigne serviva qualcuno che lo aiutasse a mettere il naso oltre le secche del localismo. E quel qualcuno lo ha trovato in Carlo Ancelotti, l'allenatore più “internazionale” che oggi sieda su una panchina italiana. Ai tempi del Milan aveva imparato a essere un gestore di talenti, una caratteristica eccellente che ha saputo mantenere nei suoi passaggi tra Chelsea e Paris Saint Germain, Real Madrid e Bayern Monaco. Era l'uomo che serviva al Napoli per uscire dagli schemi (spettacolari ma non vincenti) di Sarri e per provare a fare qualcosa di completamente diverso. Come diversa è la collocazione in campo di Insigne, non più attaccante esterno ma punta vera. Uno che non potrà mai essere centravanti di forza, per i suoi 163 centimetri di altezza, ma uno che sorprenderà sempre. Se ne è accorto il Liverpool, che ancora non ha capito da dove sia sbucato quel piccoletto per la rete decisiva in Champions League. E se ne è accorta Napoli tutta, per i sei gol che mettono Insigne al secondo posto tra i marcatori e per lampi di genio come la parabola dal limite offerta domenica per il 2-0 al Sassuolo. A 27 anni sembra essere (finalmente) scoccata l'ora delle responsabilità. Roberto Mancini attende fiducioso.