Da grande farò la calciatrice
Maschiaccio a chi? Perché il calcio femminile in Italia se ne frega dei luoghi comuni e piace alle ragazze
[Questo articolo è stato pubblicato nell'ultima edizione del Foglio Sportivo in edicola sabato 13 e domenica 14 ottobre con il Foglio del weekend. Se volete potete leggerla qui]
Se fossimo negli anni Ottanta questa storia inizierebbe con un poster attaccato a un muro di una cameretta. Non siamo negli anni Ottanta. E questa storia parte da un’immagine che fa da sfondo a un telefonino. Ci sono tre ragazze, sorridenti, emozionate. Per motivi diversi, per lo stesso motivo. Tutte e tre hanno realizzato un sogno. Più o meno grande.
Giulia e Giorgia hanno 15 anni o poco più, giocano a calcio da quando erano bambine e nella foto sono schierate a tre con uno dei loro idoli, Sara Gama, capitano della Juventus e della Nazionale italiana. Non so chi abbia gli occhi più luminosi: se Giulia, chignon tiratissimo, minuta; Giorgia che nasconde la timidezza dietro gli occhiali, o Sara, più o meno consapevole di essere un modello, una fonte di ispirazione.
Nei loro sguardi ci sono la stessa passione e la stessa storia fatta di corse dietro un pallone, porte chiuse per colpire sotto il sette ed entrare in scivolata contro i pregiudizi. Loro, come centinaia di ragazze, hanno dovuto imparare presto che i primi avversari da battere sono fuori dal campo. Qualcuno anche nella stanza accanto.
“I miei genitori non volevano farmi giocare a calcio, all’inizio. Pensavano fosse uno sport da maschi – dice Giulia – Ma io non facevo altro, prendevo il mio pallone e non smettevo mai di dargli calci. Così si sono convinti e hanno trovato una squadra. Avevo sette anni, i miei compagni erano solo bambini. Dopo un anno ho smesso. Non ne potevo più. Non è mica semplice stare con i maschi tutto il tempo… (ha ragione! ndr). Poi, dopo tre anni, sono riuscita a trovare una squadra femminile e ho ricominciato. Adesso sono felice”.
Il racconto di Giorgia non è molto diverso: “I miei non volevano. Ma io ho insistito talmente tanto che si sono arresi. E poi andavo bene a scuola. Così con l’aiuto di mia cugina che giocava già ho iniziato. Ora il mio sogno è indossare un giorno la maglia della Nazionale”.
Si gira, guarda il campo. Undici maglie azzurre non smettono di correre. Stanno giocando un’amichevole contro la Svezia ma di amichevole, lì, non c’è niente. Forse solo qualche sguardo. Giocano con gli occhi puntati addosso e sulle spalle una responsabilità che sono orgogliose di avere: sono la Nazionale di calcio femminile che ci rappresenterà al Mondiale il prossimo giugno, in Francia. Italia–Svezia è la partita. Inutile girarci intorno. Solo a nominarla ti appare la faccia di Giampiero Ventura e istintivo ci prende un dolore al petto.
Quando vediamo una maglia gialla, ormai, ci mettiamo una mano sulla fronte. Sarà anche per questo che le azzurre non mollano il colpo neppure per un secondo. Per una questione patriottica, ma non solo. Battere la Svezia, sostenuta da una altissima considerazione in patria e nella top ten del ranking Fifa, significa essere forti. Batterla, quindi, significa dare al Mondiale ancora più fascino: quello di non sapere dove possiamo arrivare. Un vantaggio strategico non da poco. Questo gruppo, poi, rappresenta un unicum nello sport italiano contemporaneo, anche rispetto a tutte le Nazionali a venire. In nessun altro contesto il gol alla Svezia può realizzarlo una come Daniela Sabatino che sta vivendo la sua prima stagione da atleta professionista (inteso come impegno quotidiano e organizzativo, non giuridico) al Milan, a 33 anni. Fino a ora la sua vita si divideva tra gli allenamenti e un lavoro come responsabile del controllo prezzi nei supermercati del Mantovano. Lei ha segnato alla Svezia. Il fatto che i suoi colleghi maschi che guadagnano quanto tutti i responsabili controllo prezzi dei supermercati del mondo messi insieme non ci siano riusciti, amplifica il valore del gol. Una rete che non ha prezzo. Ma tanta qualità. Adesso, queste ragazze, queste atlete, calciatrici, hanno tutte chi prepara loro i borsoni e le divise ma fino a poco tempo fa le trovavi di pomeriggio al campetto dell’oratorio di Brescia, al campetto di Tavagnacco nella periferia di Udine, al campetto San Marcellino di Firenze o a quello di Mozzanica in periferia di Bergamo. Ed è proprio quello il segreto di questo gruppo: la realizzazione di un desiderio comune fin dall’inizio. Provare le stesse emozioni di tutte le tue compagne, perché il percorso per arrivare fin qui è stato molto simile, perché tu come loro sei dovuta andare oltre. In più, cosa che se giochi a calcio non fa poi così male, stanno diventando davvero forti.
Trasformandosi anche in modelli di riferimento femminile, pur senza rendersene conto.
Per questo c’è chi, come Giulia e Giorgia, le segue dalla tribuna, sognante. Ragazzine alle quali chiedi chi è il loro idolo e ti rispondono senza esitazione “LA Rosucci”. “E Cristiano Ronaldo?”. “Si è forte ma non è il mio modello”.
I loro miti si chiamano Cristiana, Manuela, Elisa, Ilaria, Barbara. E se ce l’hanno fatta loro, anche tutte le ragazze che ogni giorno a scuola si sentono chiamare “maschiaccio”, devono rispondere a domande sulle preferenze sessuali, spiegare che sì, anche nel femminile si marca a uomo, convincere i genitori ad assecondare la loro passione, possono farcela.
I poster, in fondo, non sono mai passati di moda.
*Alessia Tarquinio, giornalista Sky. Dopo una vita da inviata e a bordo campo, sopporta Fabio Caressa e i suoi ospiti al Sky calcio club. Cura gli speciali “Storie” di Matteo Marani e adesso si occupa anche di calcio femminile.
Il Foglio sportivo