Maledetta mentalità ultras
Perché è troppo facile chiudere la questione degli incidenti tra tifosi avvenuti il 24 aprile scorso a Liverpool con il classico “se la sono cercata, e se la meritano”
Il 19 ottobre presso la Corte di Preston (UK) è terminato il processo al secondo tifoso romanista arrestato per gli incidenti avvenuti il 24 aprile scorso a Liverpool, prima della semifinale di Champions tra Liverpool e Roma, sotto la Kop, la mitica curva dei Reds: un tifoso del Liverpool, Sean Cox, finì in coma per un colpo alla testa, e pur non essendo più in pericolo di vita, probabilmente non riuscirà mai a riprendersi completamente.
Per due tifosi romanisti fermati la sera della partita (21 e 28 anni) si è già arrivati a sentenza, e i due si sono presi rispettivamente tre e due anni e mezzo per “violent disorder”, ma non per il ferimento di Cox, per il quale il principale sospettato è ancora anonimo e in attesa di estradizione, e ovviamente rischia una pena molto più severa.
Una tragedia, un disastro: per la vittima, ovviamente, ma anche per i giovani romanisti. Cox ha avuto la vita rovinata, gli altri comunque segnata.
Si potrebbe chiudere la questione con il classico “se la sono cercata, e se la meritano”; per chi invece volesse provare a capire, bisogna tornare a quella “fatalità necessaria” di cui parlava il sociologo Antonio Roversi molti anni fa. Caricare sotto la curva degli altri, da sempre, è uno dei gesti cardine della famigerata “mentalità ultras”. È una cosa che si deve fare. E questi episodi, soprattutto quando (fortunatamente la grande maggioranza dei casi), non succede niente, diventano “i fatti”, quei fatti che un tempo alimentavano all’infinito il racconto orale delle curve, e oggi affollano le chat di Whatsapp e le pagine Facebook legate al mondo ultras. E figuriamoci se la curva degli ospiti è la Kop, la curva più celebre e celebrata del mondo.
La sera di Liverpool-Roma su una pagina Facebook romanista la teoria di commenti di condanna per l’accaduto dei tifosi “normali” fu improvvisamente interrotta da una voce che pareva venire da un altro mondo, oscuro, ancestrale: “C’è chi parla e giudica dietro una tastiera e chi fa i fatti in terra straniera. Onore ai leoni di Anfield”. Non c’è verso, non c’è calcio moderno che tenga, la mentalità non si sradica, nemmeno quando le cose vanno male e si passa dalla mistica ultras alla concretezza dei drammi umani. È stato così, nel lontano 1995, per Vincenzo Spagnolo e per il suo assassino, ed è stato ancora così, ventitré anni dopo, per Sean Cox e tre ragazzi romani.
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