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Genio e paraculo, dateci 10, 100, 1.000 Mou

Jack O'Malley

Lo Special One smentisce ancora la sua fine. Un brindisi a Drogba, che pensavo avesse smesso nel 2012

Quando venerdì mattina ho letto che nella notte Didier Drogba aveva giocato la sua ultima partita, perdendola, confesso di avere pensato ma perché, giocava ancora? Per me, e per molti, l’attaccante ivoriano aveva smesso la notte del 19 maggio 2012, subito dopo avere segnato il rigore decisivo che permise alla squadra più improbabile di quell’anno, il Chelsea allenato da Di Matteo, di vincere la sua prima Champions League. Drogba fu tutto, quella sera: eccessivo, esagerato, meraviglioso, enorme, commovente. Aveva 34 anni, ancora un sacco di fiato e voglia di giocare. Fece l’errore di tanti: a fine stagione scappa in Cina, dove gioca poche partite con la maglia dello Shanghai Shenhua; poi Turchia – gli stadi caldi e tutto quanto, sì, però sai che palle? – dove al Galatasaray vince un campionato (l’equivalente del torneo di carte del mio quartiere); come se non bastasse, il ritorno al Chelsea, da panchinaro subentrante. Un errore che nessun calciatore dovrebbe mai fare, tornare tra le lenzuola sfatte e fredde di un grande amore finito consensualmente. Ha vinto la Premier League, è stato anche decisivo, ma recitare la parte della vecchia gloria non si addiceva a Didier. Gli ultimi anni di carriera li ha spesi in paesi dove il calcio è come una settimana di sole in Scozia, un lusso che non ci si può permettere: Canada e Stati Uniti. Capirete allora la mia sorpresa: Didier Drogba, uno dei più grandi attaccanti della storia del campionato inglese, ha lasciato il calcio venerdì notte, a 40 anni compiuti, dopo un ritiro durato sei anni, roba da fare invidia a Francesco Totti.

 

Durante il suo anonimo ritorno con la maglia dei Blues, nella stagione 2014-2015, sulla panchina del Chelsea sedeva l’uomo che ha smentito con i fatti più articoli su di lui di qualunque altro (miei compresi), José Mourinho. Solo un paio di numeri fa lo davamo per morto a livello sportivo, appena qualche settimana prima annotavamo con snobistica superficialità che non riusciva nemmeno più a far parlare di sé. Il capolavoro di culo e tattica messo in scena a Torino contro la Juventus, unito all’idiozia dei tifosi e alla sua arroganza, ha fatto sì che da giorni non si parli che di lui.

 

In quella mano all’orecchio a fine partita c’è una parte fondamentale e necessaria del calcio, per cui siamo disposti a morire sul campo e al bancone del pub discutendo alla morte con amici e colleghi: lo sfottò fatto fuori dal vaso, l’appartenenza viscerale a certi colori, l’antipatia verso quelli degli altri. Mourinho ha elogiato la Juventus più di tutti gli editoriali di Tuttosport dell’ultimo anno, non è un tifoso becero che non sa riconoscere i meriti dell’avversario. E’ furbo, malizioso, uomo così sbagliatamente bianco in un periodo in cui quella condizione si porta poco, paraculo il giusto, antipatico all’eccesso. Con quella vittoria a Torino ha riacceso un derby di Manchester che si annunciava già scritto (“Vince il City di Pep Guardiola, troppo superiore”, era il pensiero di tutti) e che invece adesso ha il sapore della battaglia senza esclusione di colpi (si gioca domenica pomeriggio, ho già riempito la dispensa di birra, patatine e brandy, mia moglie esce con le amiche e nessuno mi deve rompere le palle). Se non ci fosse, di cosa parleremmo? Di Boca-River, degli infortuni del Milan, dove oltre al ritorno del pensionato Ibra pare possa tornare il fantasma Pato, di Fabrizio Corona? Dateci dieci, cento, mille Mou. E che continui a smentirci ogni volta che lo diamo per finito.

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