Perché tiriamo i sassi agli arbitri? Parla Rizzoli
Per il capo dei fischietti di A c'è un “problema culturale, ma il clima sta cambiando. Merito anche del Var”
Oggi e domani nel Lazio non si gioca a calcio. Campionati sospesi dopo l’aggressione subìta da un ragazzo di ventiquattro anni, studente universitario con la passione per l’arbitraggio. Domenica scorsa, Riccardo Bernardini è stato prima preso a sassate, quindi a schiaffi. Talmente forti da farlo cadere a terra e sbattere la testa. Svenuto, è finito in ospedale con un trauma cranico. Gli aggressori non avevano gradito certe sue decisioni, a quanto pare.
Con Nicola Rizzoli, responsabile degli arbitri di serie A, l’idea era quella di commentare il clima un po’ cambiato nei confronti dei fischietti: non siamo diventati l’Inghilterra dove il giudice di gara è rivestito di un’aura sacra, però qualche passo in avanti rispetto al passato pareva essere stato fatto. L’attualità si impone e Rizzoli lo dice subito: “La violenza va combattuta in ogni modo possibile e il mio sostegno alle persone coinvolte, che siano arbitri, dirigenti, società e autorità varie, ci sarà sempre. I violenti vanno colpiti”. Giusto fermare i campionati, anche perché l’episodio laziale non è un caso isolato: aggressioni piccole o grandi sono la routine, spesso ignorata dai media che invece s’arrovellano in ore di dibattiti domandandosi perché il tal arbitro non abbia concesso un rigore per un pallone toccato con la mano dentro l’area per cinque, forse sei centimetri. E’ questione di cultura: “I cambiamenti hanno bisogno di tempo, soprattutto quando sono culturali. Non dico che deve passare una generazione, ma un bel po’ di tempo sì”, dice Rizzoli al Foglio sportivo.
Nicola Rizzoli (foto LaPresse)
“Un cambiamento culturale deve partire dalla base, dagli insegnamenti che si danno ai propri figli, da quel che fa la scuola. Una volta che una cultura si accorge che sta sbagliando, che sta prendendo la strada sbagliata – e io mi auguro fortemente che questa presa di coscienza ci sia – si cambia”. Però “sono convinto che in Italia un cambiamento culturale sia in atto”, anche se di strada da fare ne resta parecchia, innanzitutto perché il problema non riguarda solo il calcio, ma è sociale. “Come italiani abbiamo il problema di essere sempre convinti di essere i migliori. Quando poi andiamo all’estero ci accorgiamo che non è così”. Provincialismo, insomma. “Anche se i segnali di un miglioramento, quantomeno sul terreno calcistico, ci sono”, spiega. Il riferimento è all’avvento della tecnologia in campo, il Var, che ha contribuito a calmare gli animi e a dissipare almeno un po’ le dietrologie sull’arbitro nemico (ovviamente) della propria squadra del cuore: “Per ora sono i fatti che lo dicono. In campo i momenti di tensione sono calati, così come le proteste e le simulazioni. Il nostro obiettivo è di essere più chiari possibile. Incontriamo giocatori, allenatori, società e quando sbagliamo lo diciamo”. L’importante è che il direttore di gara non faccia il protagonista: “Se un arbitro si sente protagonista del gioco, non ha capito niente di cosa fa un arbitro. Fa parte di un contesto, ma nel momento in cui prende la sua decisione è solo. Non può essere condizionato da nessuno. Quanto alla dietrologia, se uno la vuole vedere, la vedrà sempre. L’obiettivo della tecnologia è di riportare un calcio più giusto e corretto”. Binomio interessante, si pone sempre l’accento sulla giustizia, ma poco sulla correttezza. “E’ vero, in questi due anni i giocatori sono migliorati tantissimo, il loro comportamento è molto più sereno, perché sanno che quando pensano di avere subìto un’ingiustizia scatta la verifica”.
Nicola Rizzoli ha un curriculum che parla da solo: finale dei Mondiali, di Champions League, di Europa League. L’Olimpo raggiunto più volte. Dopo aver diretto Argentina-Germania al Maracanà, ha scritto un libro, Che gusto c’è a fare l’arbitro (edito, ça va sans dire, da Rizzoli). Allora, che gusto c’è a fare l’arbitro?, domandiamo: “Quel titolo ha una storia più lunga. Nel film ‘Il cielo capovolto’ girato per celebrare il cinquantesimo anniversario dello scudetto del Bologna, io chiedo ironicamente ‘ma che gusto c’è a fare l’arbitro?’. Lì era una domanda, mentre il titolo del libro è un’esclamazione. A seconda di come uno lo legga, cambia il senso. Molti lo leggono come domanda e se questa è posta a me, rispondo che il gusto è enorme”. Detto da chi ha diretto una finale mondiale lo si può capire. Ma cosa si può dire a un quindicenne che è attratto dall’indossare la divisa ma è indeciso? “Io ero andato al corso arbitri solo per imparare le regole, mi diedero un foglio su cui era elencata una serie di sigle per me incomprensibili (Can, Cra, Otr, eccetera) e la domanda su dove si volesse arrivare in ‘carriera’. Misi una crocetta sulla categoria interregionale, che quel giorno mi sembrava irrealizzabile. Ma diventò un obiettivo che quando raggiunsi mi diede parecchie soddisfazioni”. I ragazzi come li si convince a provare? “In realtà sono domande che non hanno una risposta, non possono averla. C’è un qualcosa dal punto di vista personale che non risponde alla domanda del perché lo fai. E’ qualcosa dentro di te che ti fa mettere in gioco, la passione per le regole, per il calcio. Io volevo mettermi alla prova davanti a persone più grandi di me. Chi non ha questa spinta, si ferma prima. Io ho rinunciato a parecchi sabati sera con gli amici perché il giorno dopo avevo la partita. Ma ho continuato. Odiavo il freddo, ma continuavo lo stesso e ho superato questo blocco, tant’è che poi ho sempre indossato la divisa a manica corta”. L’adrenalina prima di una partita di serie A è la stessa che scorre nelle vine prima di una finale mondiale? “Se dicessi che è la stessa, mentirei a me stesso. La tensione è uguale nel momento della preparazione, cioè lo studio delle squadre, le cose da fare. Però quando vedi il Maracanà inizi a renderti conto di dove sei, che tutto il mondo sta guardando lì. Questo lo senti, crea pressione. Allo stesso tempo, la gioia compensa questa tensione. Per un arbitro, a differenza del giocatore, la finale è già vinta quando arriva la designazione. Certo, poi bisogna vincerla bene”.