Formula 1, va dove il porta il dollaro
Nel 2020 il Circo sbarca in Vietnam, ad Hanoi. La Liberty Media ha l’obiettivo dichiarato di mettere assieme motori e marketing, ma rischia il flop
Attenzione alle date. Perché all’ultimo Gran premio di Formula 1 del 2018, domani (25 novembre ndr) sul circuito Yas Marina di Abu Dhabi con nulla più da dire per il vincitore del mondiale piloti (Lewis Hamilton su Mercedes W09) e dei costruttori (Mercedes), molto si parlerà come sempre del futuro. Ma stavolta agli abituali rimpianti della Ferrari e di Sebastian Vettel, e ai cambi di casacche per l’anno prossimo del Cavallino e delle altre scuderie – ultimo, il ritorno del 33enne polacco Robert Kubica alla Williams – si sovrapporranno le curiosità, le anticipazioni e i gossip per il campionato 2020. Che vedrà l’ingresso del Gran premio del Vietnam, su un circuito cittadino ad Hanoi; magari bilanciato a occidente dal ritorno dell’Olanda dove si progetta di rimodernare i vecchi Zandvoord o più probabilmente Assen, con capitali Heineken che punta sul fenomeno Max Verstappen; o dell’Argentina (dove però latitano i soldi per restaurare la gloriosa pista Oscar Alfredo Gálvez di Buenos Aires). Dunque, antenne puntate sul Vietnam, tigre asiatica ma anche simbolo del più clamoroso rovescio militare, politico, mediatico e sociale, subito dagli Stati Uniti. E attenzione alle date perché bisognerà per prima cosa evitare che il fumo dei fuochi d’artificio evochi in qualunque modo quello del Napalm.
Anonimi e costruiti nel nulla. Per Toto Wolff i nuovi autodromi ricordano i “parcheggi dei supermercati”
Intanto il 2020 segnerà 45 anni dalla fine della guerra e 55 dal suo inizio. Nessun pilota, e pochi tra i tecnici, ne ha memoria diretta, ma questa è ben presente nella storia e simbologia dei due paesi. Liberty Media, gli attuali proprietari americani della Formula 1, che per nemesi tornano con quel nome in Vietnam, dovranno non urtare le molte e arrabbiate associazioni dei veterani e nel compilare il calendario tenersi alla larga dalle domeniche dell’8 e 29 marzo. La prima è la ricorrenza dello sbarco di 3.500 marine sulle spiagge di Dà Nang nel ’65, testa di ponte dieci anni dopo la rotta della Francia. La seconda data è quella del ritiro dal Vietnam, dopo un decennio, degli ultimi militari americani che lasciavano sul campo 58.226 morti e con 303.704 feriti già riportati in patria.
Anche aprile è un mese a rischio per i bolidi ad Hanoi: nell’aprile 1975 l’esercito nordvietnamita conquistò Saigon (il 30) al termine dei famosi tre giorni di evacuazione via elicottero del personale civile e della Cia dal tetto dell’ambasciata americana. E a proposito, andrebbe ridotto il via vai a bordo paddock di elicotteri executive di piloti, team e sponsor: ricordano altri elicotteri, che furono i veri protagonisti della guerra e dei suoi film. Dai Bell Iroquois, soprannominati Huey, che in Apocalyspe Now attaccavano in formazione i vietcong sulle note della Cavalcata delle Valchirie, ai grandi Chinook che prelevarono da Saigon gli ultimi civili, fino al piccolo Huey dell’estremo decollo dal tetto della palazzina della Cia.
Gli elicotteri sono ancora esposti in quantità nei musei di Hanoi e nei parchi della ex Saigon, oggi Città di Ho Chi Minh, la vecchia capitale del sud che celebra il presidente comunista ed eroe nazionale, morto nel 1969. Il regime del resto esiste ancora, e in apparenza se la passa bene con il furbesco modello di tipo cinese: ruolo guida assegnato per costituzione al partito comunista ed economia aperta al capitalismo, equidistanza commerciale tra Stati Uniti e Cina, ancora molte fabbriche-cacciavite ma anche il controllo del 40 per cento dei traffici tra oriente e occidente e lo sviluppo di aziende specializzate in supermarket, gallerie ed edilizia di lusso.
La Liberty Media ha l’obiettivo dichiarato di mettere assieme motori e marketing. Da qui la scelta di Hanoi
Proprio delle gallerie commerciali top di gamma è simbolo Pham Nhat Vuong, che finanzierà interamente il gran premio: 60 milioni di dollari solo per i diritti a Liberty media, più la costruzione dell’autodromo di Hanoi, un circuito cittadino da 5,56 km e 22 curve, alcune delle quali citeranno quelle iconiche di Montecarlo, Nürburgring, Suzuka. Vuong, con una fortuna personale stimata da Forbes in 7,5 miliardi di dollari, è l’uomo più ricco del Vietnam; sua moglie Pham Thu Huong e sua cognata Pham Thuy Hang occupano la terza e quinta posizione. Nato nel 1968 a Haiphong, allora sotto i bombardamenti americani, laureato in ingegneria mineraria e specializzato a Mosca, Vuong è diventato imprenditore in Ucraina dove ha fondato VinGroup, ora quotata alla borsa di Ho Chi Minh City, che possiede oltre mille grandi magazzini in Vietnam e parchi a tema per 4 milioni di visitatori. Con i mall di lusso progetta lo sbarco in Australia e Florida, il che lo ha reso molto appetibile ai baffoni a manubrio di Chase Carey, patron di Liberty Media, che ha l’obiettivo dichiarato di mettere assieme motori rombanti e marketing affluente.
Ma un campionato di Formula 1 troppo sbilanciato sul business e sulle megalopoli dell’oriente, in grado di costruire autodromi dal nulla, presenta dei rischi. Già in èra Bernie Ecclestone si erano visti i fiaschi dei gran premi di Turchia (circuito di Istanbul), Malesia (Sepang), India (Buddh), esperienze più o meno brevi. Motivo: la scarsa affluenza di pubblico (Turchia, India) e l’ancora più scarsa attrattività delle piste. “Sembra di correre in parcheggi di supermarket” ha commentato Toto Wolff, l’austriaco a capo della scuderia Mercedes. Wolff non è contrario alla Formula 1 in oriente, per esempio ha lodato l’impegnativo e suggestivo circuito cittadino di Baku in Azerbaijan. Le sue critiche sembrano rivolte a tracciati come Sakhir (Bahrain), Sochi (Russia) e anche a Yas Marina: “Vie di fuga come piste di aeroporto, curve ad angolo che non esistono più”. Piloti e tecnici per la verità criticano anche il rifacimento del glorioso Nüburgring, privato delle curve più tecniche (e pericolose). In generale è discusso il “modello Tilke”, da Hermann Tilke, ingegnere tedesco il cui studio ha progettato quasi tutti i nuovi autodromi o rifatto quelli storici. Da qui l’appellativo Tilkitodromi. “Tutti uguali, tutti anonimi, non sai veramente dove ti trovi. E spesso anche più pericolosi perché i meno esperti non controllano la potenza”, ha sentenziato l’ex campione del mondo Jackie Stewart, oggi commentatore. Non si sa ancora se Hanoi sarà un Tilkitodromo, ma intanto un verdetto lo ha emesso proprio Lewis Hamilton: “In Vietnam ci sono andato da turista, è un posto bellissimo come l’India. Ma, come in India, non vorrei correre nel nulla. Perché non torniamo a dove l’automobilismo è nato, in Europa e negli Stati Uniti?” La risposta è semplice: gli autodromi americani ed europei (Monza compreso) sono tutti alle prese con il problema dei soldi. In oriente non mancano, che si chiamino Petronas e ora VinCom.