La partita a scacchi con la morte in “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman

Tutto dipende dalla prossima mossa

Antonio Gurrado

La finale mondiale di questi giorni tra Carlsen e Caruana, le storiche Kasparov-Karpov e Spasskij-Fischer. E poi cinema, letteratura e arte. Perché gli scacchi ispirano politici, scrittori e (troppe) metafore

Il primo Mondiale risale al 1886, e fu vinto dal barbuto cinquantenne Wilhelm Steinitz. Nell’ultima finale, a New York nel 2016, Carlsen sconfisse il russo Karjakin agli spareggi dopo una vittoria ciascuno e dieci patte. Dopo l’iniziale sfilza di patte, la finale di quest’anno sembra avviata sulla stessa china; niente in confronto alla monumentale sfida del 1984 fra Kasparov e Karpov, che durò cinque mesi e fu sospesa dalla Federazione per sfinimento dei contendenti i quali, dopo quaranta patte, avevano iniziato a dar segno di tracollo psicofisico. Il regolamento all’epoca prevedeva che prevalesse il primo a vincere sei partite e Karpov, campione in carica, ne aveva vinte cinque ma non riusciva a venire a capo dell’ultima. I due si sfidarono anche nelle successive quattro edizioni ma prevalse sempre Kasparov, una volta conservando il titolo dopo un pareggio con sedici patte. Il loro dominio congiunto si esaurì con l’ultimo bagliore dell’Unione Sovietica, nel 1990. Karpov ne era stato l’eroe indiscusso, per aver superato anni prima l’unico americano giunto in finale prima di Caruana, Bobby Fischer, in uno dei momenti più tesi dello sport durante la Guerra Fredda.

 

“Gli scacchi divennero simbolo di intelligenza, una facile metafora
che trovò successo soprattutto al cinema”

 

Lo racconta Emiliano Poddi ne “Le vittorie imperfette” (Feltrinelli). Il titolo era in mani sovietiche dal 1948, implicitamente ritenuto segno della superiore intelligenza dei comunisti sui capitalisti. Nel 1972 Fischer, scacchista aggressivo fomentato da Kissinger, sfidò a Reykjavík il detentore Boris Spasskij; perse per forfait le prime due partite perché voleva cambiare sala da gioco, fino a che Spasskij non accettò il trasferimento nella stanza vicina e perse. Allora i sovietici presero a sospettare che gli americani avessero creato nella nuova stanza un campo di energia che confondeva Spasskij; fu ispezionata perfino una lampadina sospetta, dove fu rinvenuto il cadavere di una mosca. Nonostante ombre e capricci Fischer prevalse, ma all’edizione successiva, a Manila, non si presentò perché la Federazione non aveva accettato le sue proposte di modifiche regolamentari. Così Karpov, vincitore delle eliminatorie fra gli sfidanti, divenne campione senza giocare e il titolo tornò all’Urss.

 

Quanto alla preistoria, c’è chi indica ufficiosamente il primo campione mondiale nel bretone Legall de Kermeur, morto nel 1792 e citato da Diderot ne “Il nipote di Rameau” come assiduo frequentatore delle scacchiere del Café de la Régence con “Philidor il sottile e il solido Mayot”, superstar degli scacchi d’antan. Anche Rousseau frequentò sia Legall sia Philidor e nelle “Confessioni” racconta di aver preso lezioni da loro senza però diventare più bravo. Diderot elogia Legall come “homme d’esprit”, cosa che nel sublime francese dell’epoca non indica solo brillantezza d’animo ma una generale propensione al pensiero astratto, caratteristiche che hanno finito per essere associate a tutti i giocatori di scacchi facendo sfuggire in tanto fascino un particolare: mezza riga dopo Diderot spiega che “si può essere anche un grande scacchista e un perfetto imbecille, come Mayot”.

 

“Un colpo di scena dei Simpson rivela che Homer è un ottimo giocatore
di scacchi. La sfida contro suo padre viene trasmessa in tv”  

 

Ciò nondimeno gli scacchi divennero rapidamente il simbolo stesso dell’intelligenza, una facile metafora che trovò successo soprattutto al cinema dove, per rappresentare le facoltà intellettive di un personaggio, introdurre una scacchiera divenne una scorciatoia. Qualche mese fa un articolo di Cara Giaimo su Atlas Obscura spiegava i motivi per cui, quando sullo schermo qualcuno gioca a scacchi, in sala c’è sempre uno scacchista che si dispera: la riduzione dello sport a metafora elevata implica una minore attenzione ai dettagli, causando inverosimiglianze che non sfuggono a occhi allenati. La più celebre partita cinematografica, quella nel “Settimo sigillo”, tecnicamente non è valida: i giocatori hanno una casa nera nell’angolo alla propria destra quando è prassi che sia bianca. Di conseguenza, la scacchiera è al contrario. Si potrebbe obiettare che, essendo quadrata, disporla erroneamente non inficia svolgimento e risultato della sfida ma il senso degli scacchi sta proprio nel rispetto di un’intricata rete di norme che appaiono ininfluenti a chi gioca alla carlona: nessun dettaglio è fine a sé stesso, ma contribuisce alla definizione di un sistema entro il quale i giocatori hanno a disposizione un numero di possibili combinazioni di mosse elevatissimo ma finito.

 

Quella del “Settimo sigillo” è la prima partita a scacchi metafora di sfide intellettuali sovrumane: il cavaliere combatte la morte e perde. In “2001 Odissea nello spazio” l’astronauta sfida Hal e il supercomputer bara. In “Blade Runner” la partita fra il tycoon Tyrell e il genetista Sebastian viene decisa in favore di quest’ultimo grazie alle mosse suggerite da Roy Batty, un replicante. In “Harry Potter e la pietra filosofale” il maghetto fronteggia pedoni incantati armati fino ai denti. Ciò detto, gli scacchi valgono come metafora d’intelligenza anche al contrario, precipitando nel bathos per misurare la stupidità di un personaggio. Un esempio è la partita fra Marty McFly e Copernico in “Ritorno al futuro III”, dalla cui scacchiera sono spariti pezzi che tuttavia la disposizione non consente siano stati mangiati – se non inghiottiti da Copernico, che è un cane. Un recente colpo di scena dei Simpson rivela che Homer è in realtà un ottimo giocatore di scacchi (a conferma di ciò che diceva Diderot): la partita decisiva contro suo padre viene trasmessa in tv scatenando l’entusiasmo delle folle, che ignorano il contemporaneo Superbowl, ed è commentata in diretta Skype da Magnus Carlsen, proprio lui, impegnato in un cameo in cui esprime tutta la gamma di sentimenti di cui solo un norvegese è capace restando immobile e muto per un minuto buono.

 

È geniale che in “Blade Runner” il replicante suggerisca di replicare le mosse conclusive della partita passata alla storia come “l’immortale”, giocata a Londra nel giugno 1851 fra Adolf Anderssen e Lionel Kieseritzky, di fatto un Mondiale ante litteram. Né sorprende che proprio questa partita sia stata la prima a sfondare nella letteratura di fantascienza, col racconto di Poul Anderson “Il gioco immortale” (1954) in cui dei computer si sforzano di riprodurre artificialmente le sofisticate mosse partorite dall’intelligenza umana. L’ambizione a meccanizzare gli scacchi è antica. Già nel Settecento, alla corte di Maria Teresa d’Austria, Wolfgang von Kempelen presentò un automa dalle sembianze di un turco che nel tempo si rivelò in grado di sconfiggere sfidanti umani, fra cui Franklin e Napoleone (ne ha parlato Luciano Capone sul Foglio del 10 ottobre 2016). Si trattava in realtà di un finto meccanismo che fungeva da custodia per un giocatore umano abbastanza minuto ed esperto, come fu svelato da Edgar Allan Poe nel saggio “Il giocatore di scacchi di Mälzel” (1836) sulla scorta di una considerazione avanguardistica: se fosse stato davvero un automa, avrebbe sempre vinto contro gli uomini. Poe ci aveva indovinato ma in teoria aveva torto, come dimostra la sfida del 1996 fra Kasparov, sovietico, e Deep Blue, computer, che vide vittorie da entrambe le parti. E, commentò qualcuno, la macchina avrebbe dimostrato di essere pari all’uomo non battendolo sempre ma arrabbiandosi dopo avere perso.

 

L’attenzione mediatica ingenerata dalla sfida fra Carlsen e Caruana testimonia che gli scacchi hanno miglior riuscita non come metafora né come meccanismo astratto bensì come contesto narrativo. Il primo a intuirlo fu Lewis Carroll: “Attraverso lo specchio” è il primo romanzo impostato come una partita a scacchi, i cui personaggi sono pezzi antropomorfi animati. I capitoli corrispondono alle undici mosse compiute dal pedone bianco (Alice) per vincere spostandosi su una scacchiera che coincide con l’ambientazione fantastica del romanzo, in cui incontra regine e cavalli ma anche i gemelli Tweedledum e Tweedledee, ovvero le torri. Meno chiaro è il perché uno degli alfieri sia un tricheco. Nella prefazione all’edizione del 1897, Carroll ammise alcuni errori ma rivendicò che la trama rispettava le regole del gioco. È vero. Nel corso del libro – illustra il matematico Martin Gardner – Alice conversa solo con personaggi che si trovano nella casella adiacente alla sua; le regine corrono di qua e di là mentre i re restano quasi sempre fermi; i cavalieri cadono dalla sella per gli scossoni delle mosse a L; Alice viene incoronata quando arriva al capo opposto al punto di partenza; e, se talvolta i pezzi sembrano fare mosse sbagliate, è solo perché nel mondo fantastico che si trova oltre gli specchi tutti gli abitanti sono un po’ sconsiderati.

 

Il sistema narrativo creato dagli scacchi è rigidamente deterministico e probabilistico. Sta forse in questo il fascino che l’incerta sfida fra Carlsen e Caruana esercita su masse insospettabili, liete di trascorrere ore ad aspettare che il lungo equilibrio venga spezzato da una mossa chiarissima cui tuttavia nessuno aveva pensato. È una tendenza che la Giaimo rinviene nello “scacco matto drammatico”: in un film è comune che due sfidanti siano bloccati in un interminabile stallo finché non passa un quidam che sposta una pedina a caso e dichiara lo scacco matto. Non serve essere esperti per capire che, in un sistema così rigido, nessuno scacco matto potrà mai cogliere nessuno di sorpresa (che un terzo metta mano alla scacchiera, invece, sì). Essendo uno sport deterministico, negli scacchi il risultato è sempre conseguenza diretta della successione delle mosse per cui optano i giocatori; si costruisce pertanto pian piano sotto i loro occhi ed è sempre inevitabile e previsto, in contrasto con un grande pubblico che esige emozioni e sorprese. Su un’assurdità consimile si conclude il racconto di Boito, in cui l’alfiere nero dà scacco matto su una scacchiera semivuota, dopo che il giocatore ha ponderato la mossa per quattro ore notturne, manco fosse Carlsen; giustamente, l’avversario impazzisce e lo uccide prima di precipitarsi in strada a camminare ora diritto, ora in diagonale, ora a L. Speriamo non accada a Londra.

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