Il Var così non serve a niente
Doveva rasserenare gli animi e risolvere problemi, dopo la sua riforma è peggio di prima. Una proposta
Una cosa sola il Var doveva fare: portare serenità nella patria dell’eterno sospetto. È per questo che l’Italia ha fatto il possibile per adottare, per prima in Europa, la moviola. Certo, è utile perché determina se l’alluce del piede di tal giocatore è in fuorigioco o meno grazie alle righe 3D, ma prima di tutto doveva anestetizzare il clima da lercio saloon texano che ammorba gli spiriti sugli spalti e in campo. Calma, calma, predicano ora alla stregua di nonni saggi gli arbitri: “la stiamo rivedendo”. E tutti più tranquilli, visto che il monitor imparziale avrebbe dato la sentenza oggettiva. Un bel sospiro di sollievo, divenuto ancora più profondo con il Mondiale russo, dove il Var aveva funzionato più che bene. Bei ricordi da madeleine proustiana. Sono bastati un po’ di mesi e siamo di nuovo immersi nella cloaca di sospetti e veleni. Titoli dei giornali a denunciare furti e vergogne, presidenti che rabbiosi dicono e non dicono, ma fanno ben capire che il solito “Palazzo” trama alle spalle della loro squadra.
Roma-Inter è stato uno spartiacque. Il romanista Zaniolo entra in area e viene sgambettato dall’interista D’Ambrosio. C’è poco da dire, il fallo è evidente e il rigore netto. Ma Rocchi, l’arbitro, non fischia. Era coperto e non poteva vedere. E fin qui niente di drammatico, dopotutto c’è il Var. Ma il Var Michael Fabbri, a sua volta, non interviene. Perché? Non si sa. “Inconcepibile”, ha tuonato Marcello Nicchi, presidente dell’Associazione italiana arbitri che tutto avrebbe voluto meno che finire nuovamente nel tritacarne. Per quale motivo Fabbri non abbia quantomeno detto a Rocchi di andare a riguardarsi l’azione – la cosiddetta on field review, in gergo tecnico – resta un mistero. Nicola Rizzoli, il designatore, dice che di errore umano si tratta – e ci mancherebbe altro – e che i provvedimenti competono a lui e a lui soltanto. Tradotto: qualche turno di stop per i colpevoli. Però la domanda resta: se il Var serve a buttare l’occhio dove quello dell’arbitro non arriva, perché non è stato utilizzato? Il silenzio imbarazzato di questi giorni ha fatto prosperare supposizioni e illazioni: da quelle più assolutorie (Rocchi non c’entra niente e a Fabbri sono state mostrate solo le prime incomplete immagini) a quelle più umane (Fabbri ha dieci anni e duecento partite in A meno di Rocchi, il timore reverenziale è giustificato).
C’è però una terza ipotesi: il sistema così come è congegnato, tra protocolli studiati e aggiustati dalla congrega dell’Ifab, non funziona. Gli arbitri, che sono uomini, sono stretti fra direttive poco elastiche, moniti dei rispettivi superiori e sensazioni di quel che hanno visto in campo. Shakerare tutto in trenta-quaranta secondi, è disumano. Meno liberi di decidere rispetto alla scorsa stagione e più irrigimentati in regole e codicilli, sbagliano. Il Var, da mezzo per sopperire alle lacune visive, è diventato uno strumento di tortura psicologica per gli arbitri in campo, sempre più insicuri. Luca Marelli, ex arbitro di serie A fino al 2009 e ora studioso del comportamento arbitrale in campo, ha scritto sul suo sito che ormai “il Var non interviene mai per contatti tra calciatori, motivo per cui dobbiamo assistere increduli al rigore di Fiorentina-Atalanta per una simulazione di Chiesa o al mancato rigore di Sassuolo-Inter per il fallo subito da Asamoah”. Ma se non interviene per contatti tra calciatori, per cosa interviene? Risposta: per i falli di mano. La moviola viene chiamata di fatto solo per decidere se un tocco del pallone con la mano è volontario o non volontario. A monte c’è la direttiva insuperabile: si interviene solo in caso di “chiaro ed evidente errore”. Possibile, però, che il chiaro ed evidente errore ci sia solo sui falli di mano? “Da un lato il chiaro ed evidente errore viene allegramente ignorato per i falli di mano (o presunti tali), mentre è diventato un ostacolo insormontabile per tutto il resto”, ha aggiunto Marelli.
Che fare allora? Lasciamo stare la possibilità di chiamata da parte degli allenatori. Il calcio non è il tennis, e per vedere se il pallone è dentro o fuori c’è già la goal-line technology. Anche perché cosa si risolverebbe se lo sgambetto di D’Ambrosio ci fosse stato dopo che Di Francesco aveva già esaurito i suoi challenge? Niente. Per salvare la baracca si potrebbe dimezzare il tempo delle conversazioni tra Var e arbitro centrale, lunghissime. Il Var chiuso nello stanzino segnala il fatto sospetto al direttore di gara che va al monitor. Sempre. Perché il rischio dell’aiuto tecnologico è di far decidere ai tecnici che trasmettono le immagini (selezionandole) e non all’arbitro, che deve restare l’autorità ultima. Altrimenti si apre al caos, con il fischietto sostituito da una sorta di commissione chiamata a valutare un episodio e a decidere il da farsi. Niente chiacchiere all’auricolare con il sottofondo di fischi dalle tribune, ma rapida corsa dell’arbitro al monitor. Tempo di rivedere l’immagine sfuggita in campo e di decidere. Il Var sarebbe così sgravato dall’incombenza di stabilire – con chissà quali criteri, poi – se un errore è chiaro ed evidente oppure no.
Qualcuno, in ambiente Aia, sottolinea che il disorientamento è dovuto anche all’assenza di un supervisore generale “tecnologico”, che fino alla scorsa stagione era impersonato da Roberto Rosetti, ora promosso a capo degli arbitri dell’Uefa in sostituzione di Pierluigi Collina. Di pochi giorni fa l’annuncio: il Var debutterà in Champions League a febbraio. Un’inversione totale rispetto a quanto annunciato tempo fa dallo stesso (scettico) presidente dell’organismo calcistico continentale, Aleksander Ceferin, che aveva annunciato la partenza del Var solo dalla prossima stagione. Ma nel calcio di oggi restare ancorati al romanticismo dell’arbitro unico giudice supremo in campo era impossibile. C’è poco da fare, nel mondo contemporaneo diventa vitale anche sapere se l’alluce dell’attaccante è in fuorigioco di due virgola sette millimetri.
Il Foglio sportivo