Foto Pixabay

Ritratto del pensiero perduto

Alessandro Bonan

La verità nel calcio non esiste. La bellezza di questo sport risiede proprio nella mancanza di certezze. Eppure parlano tutti con la verità in mano. Senza pensare, perché il pensiero è volato altrove

C’era una volta il pensiero, e il calcio ne era un’espressione. Si manifestava solitamente al bar, il giorno dopo le partite. Non era niente di trascendentale, un modo per comunicare con gli altri alzando un po’ la voce, con concetti basici, perfino primitivi in alcuni casi, ma genuini. Quello che mancava, in quei pensieri, era la presunzione e anche la cattiveria. Ognuno diceva la sua, magari con un ghigno sinistro sul viso nel peggiore dei casi, ma senza classifiche d’intelligenza, del tipo “io ti sono superiore, in quanto tifo per…”. Questo pensiero con il tempo è migrato altrove, chissà dove. Oggi non esiste più. Nella moderna interazione tra uomini è stato sostituito. Come un cambio nel calcio, fuori il pensiero dentro l’illusione. Siamo tutti degli illusi, degli orribili illusi. Immaginiamo di possedere la verità e invece la verità non esiste. Non è mai esistita. La verità nel calcio non esiste. La bellezza di questo sport risiede proprio nella mancanza di certezze. Parlano tutti con la verità in mano.

 

Parlano i proprietari (non tutti per fortuna), che se li metti in discussione reagiscono con la coda avvelenata, spargendo sale ovunque. Seminando sospetti, anche se il calcio lo comandano loro. Ed è giusto che sia così, perché ci mettono il rischio del denaro e della reputazione. Quindi se di sospetti dobbiamo parlare: chi sospetta i sospettati? Non sono benefattori, sono imprenditori. Usano il pallone raramente per passione, molto spesso per affarismo, per vanità in certi casi. Niente di male, ci mancherebbe, ma la santità si fonda su principi alternativi.

 

Parlano gli allenatori (non tutti per carità) e si fanno paladini del discutibile, usando toni da tribuni della plebe. E i patrizi applaudono chissà perché. I calciatori non parlano quasi mai e invece dovrebbero farlo, ma non sono programmati per le parole. Quindi succede che gli unici che avrebbero voce in capitolo, in quanto veri protagonisti, stanno zitti. Per inconcludenza del pensiero non allenato. Parliamo noi giornalisti (non tutti per onestà) e facciamo un gran casino. Sballottati dal potere, storditi, umiliati in certi casi. Poveri di spirito e di coraggio. Proviamo a fare qualcosa ma lo facciamo male in quanto disorientati, impreparati e illusi. Ancora crediamo che un calcio di rigore sia quello che vedi, e non quello che si nasconde dietro le quinte. Parla la gente (tutta la gente) ed è giusto che parli, siamo in democrazia. Anzi in quella che gli inglesi chiamano e-democracy, la democrazia elettronica. O digitale, se preferite. Quindi parlano tutti. E offendono, minacciano, odiano. Giudicano senza giudicarsi, sospettano senza sospettarsi, avversano con la bava alla bocca, alla ricerca di qualcosa da sbranare. Senza pensare, perché il pensiero è volato altrove. Senza guardare, perché siamo diventati ciechi. Senza parlare, perché abbiamo smarrito perfino il rumore delle belle parole. Perché siamo senza misura, senza stile, senza rispetto e senza qualità. E forse, senza speranza.

Di più su questi argomenti: