Campione vecchio fa buon brodo
Perché Federer è più tifato oggi di quando vinceva tutto, e ci aspettiamo che Valentino Rossi conquisti un Mondiale anche se non succede da dieci anni? Indagine sulla nostra resistenza al tempo che passa
In un canonico novembre fumo di Londra, in un’arena coperta con al centro un campo da tennis, abbiamo avuto l’ultima dimostrazione, in ordine di apparizione, di come lo sport sia un paese per vecchi. Vecchi campioni, però. Se sono vecchi e non vincono non li amiamo. Li sosteniamo nella loro sfida contro l’età, ma se la falliscono, basta. Dentro la 02 Arena di Londra, quella sul cui tetto a tartufo finiscono o cominciano molti film, quasi sempre d’azione, si giocava la semifinale del torneo dei campioni, le finali ATP tra Aleksander “Sascha” Zverev, allievo di Ivan Lendl, nuovo Boris Becker, pupillo di Roger Federer e Mister Slam (20 vinti in carriera) in persona, il più grande di tutti i tempi.
È successo che il ragazzetto è stato subissato di fischi perché ha chiesto la ripetizione di un punto a causa di una doppia palla in campo, praticamente si è arbitrato da solo, ma dura lex sed lex. Il popolo, arrivato ad assistere all’ennesima sfida contro il tempo del campione di Basilea non ha perdonato al ragazzetto (insomma, 198 cm) l’offesa al dio del tennis. Ci fosse stato Apollo, come al tempo degli Achei e dei Troiani, avrebbe mandato una terribile pestilenza nel campo avverso. In quel caso l’offesa riguardava il rapimento di Criseide sacerdotessa del dio, in questo caso le sacerdotesse di Federer hanno tirato fuori le unghie contro il rampante tedesco che punta a diventare il nuovo “Bum-Bum”.
Quando Roger vinse il primo torneo, a Milano nel 2001, aveva la facciotta e non era così amato. Neanche nel suo periodo più splendente, quello dei cinque Wimbledon uno di seguito all’altro, aveva questo esercito di groupies adoranti, telecronisti compresi, che per lui importano un tifo calcistico. Roger Federer è un fenomeno a sé, perché ha delle “vestali” che ne difendono il culto. Però ne ha più ora a 37 anni che quando ne aveva 27, questo è il punto.
Il campione al tramonto che come nello spot dello Jägermeister rimanda indietro il tempo, anche se nel caso dell’amaro è la notte che resiste al giorno, è sicuramente uno degli aspetti più interessanti dello sport. Un caso evidente di immedesimazione. Tutti, anche coloro che hanno meno anni di lui, si uniscono al suo tentativo di allontanare la pensione. Non è un problema di lavoro, perché in noi resta ben saldo il desiderio di andarci, in pensione, ma di forza, di competitività, di resistenza. Del desiderio di aggrapparsi alla vita contro la decadenza. Per questo ci piacciono gli anziani che ancora si battono. Li amiamo più da vecchi.
Il caso da manuale di Del Piero: a 24 anni tutti gli preferivano il “vecchio” Baggio, a fine carriera
era un mostro sacro
Un caso da manuale. Alessandro Del Piero, quando era un giovanotto, a 24 anni non ancora compiuti, formava con Vieri la coppia titolare della Nazionale italiana ai Mondiali di Francia nel 1998. Cesare Maldini convocò anche Roberto Baggio, protagonista dell’epopea sacchiana a Usa ’94. Si creò il sempre amato dualismo che ha caratterizzato la storia azzurra e che, ahinoi, è tristemente scomparso nell’ultima decade. La staffetta, un grande classico del calcio, come il balcone in politica. Ma una volta avevamo Mazzola e Rivera o, appunto, Del Piero e Baggio. Il popolo stava tutto dalla parte del più anziano Baggio, pochi sostenevano il giovane Del Piero.
Anche il premier in carica, Romano Prodi, interpellato, si schierò con il Divin Codino. Il politico che ne sa una più dell’allenatore non l’ha inventato Salvini. Famosa la risposta del mitico Cesarone Maldini, ct in carica. “Mi sembra che Prodi sia più un tecnico della bicicletta”, rispose, accennando alla passione del primo ministro per le due ruote. Baggio, che godeva dei favori del pubblico e della critica, qualche anno prima era stato battezzato da Michel Platini: “Non è un dieci, è un nove e mezzo”. E l’avvocato Agnelli lo aveva chiamato “coniglio bagnato” giudicando la sua espressione dopo la partita Italia-Norvegia in cui era stato sostituito da Sacchi (Usa ’94).
Quattro anni dopo era Del Piero a subire la legge dell’anziano che attrae più del giovane. Il partito pro-Baggio durò fino al 2002, sostenendo la sua candidatura, a 35 anni, per il quarto Mondiale, in Giappone e Corea del Sud. Ma Giovanni Trapattoni, che sedeva sulla panchina azzurra, era anziano del mestiere e voleva evitare il solito teatrino. Venne attaccato da tutti i columnist in voga all’epoca ma, a proposito di anziani, preferì portare Angelo Di Livio, il “soldatino”, un anno in più del Codino (classe 1966), ma che non avrebbe condizionato i due estroversi calcistici del gruppo, Francesco Totti e Alex Del Piero. Poi, anche il capitano della Roma e quello della Juventus sono diventati anziani e a loro volta hanno goduto della considerazione popolare. Il caso di Totti è particolare, romano nella Roma, con un rapporto viscerale con la città. Nessuno voleva vederlo smettere. Ha chiuso lasciando un senso di incompiutezza nella tifoseria, un vuoto che non è solo per la sua presenza fisica, ma anche per la convinzione che tutti avevano e forse hanno ancora, che potesse durare quasi all’infinito.
Sia l’addio di Totti che quello di Del Piero sono stati simili per commozione e rimpianto. Il loro è stato un lungo passaggio, con ogni impresa, un gol, un assist, nella parte declinante, salutata come espressione di una resistenza che non era solo sportiva, ma anche umana. La domanda tecnica è questa: hanno fatto veramente la differenza nei loro ultimi anni? Probabilmente no. A un certo punto il campione al tramonto gioca più per sé (non con coscienza) che per la squadra, se parliamo di sport al plurale. Per dire, Del Piero ha segnato molte reti importanti nei suoi ultimi tre campionati alla Juventus, ma i primi due sono finiti con Madama al settimo posto, mentre nel terzo è tornato lo scudetto, ma per Conte, Pirlo, Vidal e una squadra mai sconfitta grazie all’intervento decisivo dell’allenatore. Ma non è rilevante.
Noi amiamo l’anziano che prova a vincere. Spingiamo Valentino Rossi ogni volta che scende in pista, sperando che riesca ad acchiappare un altro Mondiale malgrado i dieci anni di astinenza (l’ultimo nel 2009). Noi, che abbiamo qualche anno di più, abbiamo applaudito Francesco Moser nel suo momento più magico, a 33 anni, nel 1984 quando migliorò il record dell’ora (poi cancellato per l’uso della bici con le ruote lenticolari) a Città del Messico, vinse la Milano-Sanremo e si aggiudicò il giro d’Italia. Giuseppe Saronni, il suo rivale “istituzionale” in quegli anni, più giovane di sei anni, non aveva lo stesso seguito. Come sempre nel ciclismo i suoi seguaci erano agguerriti, ma in minoranza. Anche Pietro Mennea venne più amato nella fase finale della sua carriera, dopo gli arditi tentativi di ritorno, il primo culminato nella quarta finale olimpica dei 200 metri a Los Angeles 1984, in cui fu settimo. Il secondo, a Seul 1988, interrotto dopo la prima batteria fu triste.
Agli Us Open del 1991 Jimmy “Jimbo” Connors aveva 39 anni. Quell’anno, Björn Borg aveva tentato il primo malinconico ritorno a Montecarlo, venendo arrotato dallo spagnolo Jordi Arrese, specialista della terra rossa. Borg venne accompagnato non dalla passione, ma dalla commiserazione. Non era un anziano vincente, ma la controfigura di se stesso, un ex che non si era accorto dei mutamenti dello sport e del tennis. Borg tentava di competere con tennisti più giovani, dotati di meno talento ma con più forza fisica, sostenuta dai moderni materiali utilizzati per le racchette, con uno stile superato come la sua racchetta di legno. Jimbo era di un’altra tempra, di una cattiveria mancina che in quell’afoso settembre del 1991 si abbatté su Flushing Meadows con il suo dirty tennis. Brad Gilbert, futuro tecnico di Andre Agassi, non aveva ancora teorizzato la sua filosofia, diventata anche un libro, “Winning ugly”, vincere sporco. Jimbo fu un precursore.
Nel match contro Patrick McEnroe, il fratello “buonino” di John, fu scorretto fino all’inverosimile, aizzò il pubblico, condizionò l’arbitro e l’avversario. Però la sua cavalcata nel torneo, a 39 anni, eccitò la folla. Tutti speravano che arrivasse in finale e, magari, la vincesse pure. Erano tutti con lui, su quell’asfalto bruciato, con la skyline di New York sullo sfondo, dove svettavano le Torri Gemelle, a dieci anni dall’abominio. Ma in semifinale Jimbo e il suo dirty tennis finirono in rotta di collisione con Jim Courier, vent’anni di meno, uno di quelli che all’epoca venivano chiamati attaccanti da fondo campo. Il pubblico era per l’altro Jim, ma non ci fu verso.
Eraldo Pizzo, il Caimano della Santa Waterpolo italiana, si è ritirato nel 1982 a 44 anni. L’anno prima aveva contribuito a far vincere al Bogliasco il suo primo e unico scudetto. Sembrava immortale, il Caimano, ogni vasca in cui si tuffava la trasformava in un lago di successi. Nessuno, nell’ambiente, voleva che si ritirasse, tutti pensavano che sarebbe arrivato a 50 anni. Almeno. Il campione anziano o è vincente o non vale. Solo a questo prezzo siamo disposti ad abbandonare i giovani al loro destino. Nel nuoto abbiamo sostenuto molti ritorni, da quelli di Mark Spitz a quello di Michael Phelps.
Ma un nuotatore che come impatto mediatico e creazione di consenso è simile a Roger Federer, è senz’altro Aleksandr Vladimirovic Popov. All’inizio aveva paura dell’acqua, poi l’ha fatta diventare il suo habitat naturale anche grazie al discusso Gennadi Touretski che ha seguito dalla Russia all’Australia, prima di trovare domicilio in Svizzera. Popov era l’ultimo figlio del vecchio sistema sportivo sovietico. Esplose a Barcellona 1992, la prima Olimpiade dopo la caduta del Muro di Berlino e anche quella dopo la chiusura del laboratorio di Lipsia e delle atlete della Germania Est costruite in provetta.
Abbiamo applaudito Moser a 33 anni,
il Mennea del 1984,
il 39enne Connors
contro Courier nel 1991
Dall’ex Germania Est venne “solo” Franziska Van Almsick. Fu un’edizione dei Giochi con molti equilibri saltati. Popov ne fu la stella con il doppio oro nei 50 e nei 100 stile libero. Quattro anni dopo, ad Atlanta, si ripetè davanti/contro gli americani. Non c’era più la Guerra Fredda ma la soddisfazione fu notevole. Nel 2000 Popov, sostenuto praticamente da tutto il mondo, una specie di Federer in costume, si presentò da favorito a Sydney per entrare nella storia, cioè conquistare per la terza volta la doppia corona della velocità.
Lo accompagnava il favore popolare anche perché aveva rischiato di morire, tre anni prima, per una coltellata all’addome da parte di un venditore di cocomeri in un mercato di Mosca, dopo una lite pare generata dagli apprezzamenti di alcuni ambulanti alla sua fidanzata. Popov aveva 29 anni, era uno dei più vecchi in vasca. Anche gli australiani, che lo avevano adottato, tifavano per lui ma nei 100 venne battuto da Pieter van den Hoogenband, un olandese rock, irrispettoso e veloce, mentre nei 50 scivolò addirittura al sesto posto, tra il cordoglio della grande piscina. Alla Federer, che proprio in quell’Olimpiade fece il suo debutto in società, commentò: “Non è la fine del mondo. Non posso vincere tutto, devo dividere con gli altri”. Ai Mondiali nel 2003 a Barcellona, città magica per lui, a 32 anni riconquistò le sue distanze. Poi planò verso la vecchiaia senza vittorie. E quindi verso l’oblio.