Ma chi comanda alla Ferrari?
Il dopo Marchionne alla Rossa è più complicato del previsto. Il licenziamento di Arrivabene, le motivazioni da ritrovare per Vettel e l’unità della squadra da ricostruire
[È in arrivo una rivoluzione all'interno della Ferrari. Secondo quanto anticipato dalla Gazzetta dello Sport Maurizio Arrivabene non sarà più il team principal della scuderia. Al suo posto, per la stagione 2019, l'attuale direttore tecnico Mattia Binotto. L'annuncio dell'avvicendamento potrebbe arrivare già oggi. Nel numero del Foglio Sportivo in edicola sabato 5 gennaio, Umberto Zapelloni, aveva parlato della “guerra” interna alla scuderia e della mancanza di una direzione chiara. Invitando la dirigenza a salvare la Ferrari prima che fosse troppo tardi].
È una questione di uomini più che di macchine. Sembrerà strano, ma il 2019 della Ferrari comincia con una preoccupazione che da anni non abitava più a Maranello, dove le lotte intestine in altre epoche erano state capaci di travolgere ogni buon proposito. “Si vince o si perde tutti insieme” è la frase mantra dietro cui cerca di nascondere ogni problema Maurizio Arrivabene, il grande capo della Gestione Sportiva, il c.t. della Nazionale Rossa che per tanto tempo è stato come Antonio Conte e ora rischia di fare la fine di Gian Piero Ventura. Ed è proprio su quel “tutti insieme” che bisogna lavorare e non poco.
Clamoroso in #ferrari #binotto al posto di #Arrivabene. La guerra finisce con un licenziamento. Lo rivela #Gazzetta pic.twitter.com/8SdvRqWgSA
— umberto zapelloni (@uzapelloni) 7 gennaio 2019
Lo ha sottolineato anche Sebastian Vettel nella sua letterina di Natale alla squadra: “Rimbocchiamoci le maniche, cerchiamo di comunicare sempre meglio fra di noi, con fiducia e stima reciproca, aiutandoci in tutto e per tutto. Solo continuando a lavorare insieme come una squadra forte e unita possiamo fare il prossimo passo. Per impegno ed entusiasmo siamo una squadra fantastica! E io vi prometto che per il 2019 darò tutto il possibile per raggiungere il nostro grande obiettivo! Vi auguro tutto il meglio. Grazie mille. Sebastian”. Un messaggio chiaro. Perché anche Sebastian, evidentemente, ha capito che qualcosa non funziona come dovrebbe, che quelli che sono definiti solo “rumors” dai diretti interessati, assomigliano sempre più a delle crepe sul muro maestro. Possono essere riparate, ma se non si interviene in fretta il castello rischia di crollare. Vettel ha chiesto a Babbo Natale di lavorare insieme come una squadra forte, di comunicare meglio. Insomma di non litigare, di fare squadra come si insegna nei team building.
La storia della Ferrari racconta che le vittorie sono arrivate soltanto quando la linea di comando era salda. Due uomini forti a guidare, gli altri a eseguire. È stato così, prima con Enzo Ferrari e Mauro Forghieri e poi con Luca di Montezemolo e Jean Todt. Ma è stato così anche con Sergio Marchionne e Maurizio Arrivabene fino al 25 luglio dello scorso anno. La Ferrari, soprattutto la Gestione Sportiva, non è un’azienda come le altre da governare. Ha bisogno di un’attenzione particolare, di una dedizione totale, di un amore che solitamente nel business può anche non servire. È un mondo che ti prosciuga, ma che può anche regalarti tanto. Devi saperlo prendere. Manovrarlo e non farti manovrare dalle sue correnti sotterranee capaci di trascinare via ogni cosa. Quello che manca oggi alla Ferrari è proprio la catena di comando forte.
Maurizio Arrivabene non può farcela da solo, soprattutto se il rapporto con il direttore tecnico Mattia Binotto è ormai ridotto a rari saluti in corridoio. Saranno anche favole giornalistiche, ma la lettera di Vettel conferma che non tutto sta funzionando come dovrebbe. Arrivabene e Binotto non sono mai andati d’amore e d’accordo, ma il loro rapporto ha funzionato benissimo fino a che sopra di loro c’era Sergio Marchionne. Senza di lui hanno cominciato a tracimare. Tutti e due. Perché dare la colpa solo all’uno o all’altro non sarebbe corretto. Il problema è che dopo Marchionne, presidente è diventato John Elkann, mentre il ruolo di amministratore delegato è stato affidato a Louis Camilleri. Il presidente di Fca ha ben altri scenari da leggere e interpretare, visto che in ballo c’è il futuro di tutta l’azienda e non può dedicarsi totalmente alla Ferrari. Non che Marchionne avesse nulla da fare, obbietterà qualcuno, ma Marchionne era Marchionne sapeva moltiplicare il tempo, far sentire la sua presenza anche se era lontano, prendere le decisioni giuste quando dovevano essere prese. La gente gli ubbidiva per rispetto, timore, ma anche perché sapeva che era l’unico modo per continuare a lavorare con lui, sempre che non si fosse in grado di convincerlo che stava facendo una scelta sbagliata.
Arrivabene non può farcela da solo, e ormai il rapporto con il direttore tecnico Binotto è ridotto a rari saluti in corridoio
Marchionne però non è replicabile. Montezemolo ormai rappresenta il passato. Bello e vincente, ma il passato che non torna. Con John Elkann impegnato in altre guerre, servirebbe almeno una linea di comando più forte e più dura. Nella galassia Agnelli un’operazione di questo tipo ha funzionato quando Andrea è diventato presidente della Juventus al posto di suo cugino John, promosso nel frattempo presidente dell’allora Fiat. John è l’uomo del pensare, Andrea l’uomo del fare. Con la Juve ha funzionato a meraviglia, non si può negarlo. Andrea potrebbe cedere la presidenza juventina a un Nedved ormai maturo per viaggiare da solo e dedicarsi alla Ferrari, dove da ragazzo ha mosso i suoi primi passi da manager. Ritroverebbe l’amico Arrivabene che lui stesso ha inserito nel cda della Juventus, ancora prima che gli venisse affidata la Ferrari. Ma Andrea in questo momento ha un chiodo fisso in testa: vincere la Champions League e riformare il calcio dei club in Europa. La strada sembra insomma impraticabile. Per evitare l’implosione totale però va fatta chiarezza in fretta. Va ricostruita la solidità della linea di comando perché cominciare la stagione nell’incertezza non porterebbe da nessuna parte, anzi porterebbe da una parte sola: al fallimento.
Questo 2019 è un anno molto delicato. Non dovrebbe, considerando i risultati del 2018, la stagione più vincente dopo quella dell’ultimo Mondiale Costruttori (2008). Cambiano le regole tecniche, ma non ci saranno rivoluzioni come in anni recenti. La base su cui lavorare è ottima, la stessa squadra, dopo la débacle patita tra Monza e Singapore, si è ricompattata tornando a vincere con Raikkonen in Texas. Ma tutto questo potrebbe non bastare se prima non verrà recuperato completamente Vettel e poi non si ritroverà la serenità indispensabile per battere la Mercedes ed evitare che cancelli anche l’ultimo record firmato Schumacher rimasto in casa, quello dei sei Mondiali costruttori di fila.
Illustrazione di Dario Campagna
L’anno di Vettel, nonostante le cinque vittorie, è stato devastante per l’autostima del quattro volte campione del mondo. Troppi errori, anche banali, in pista ne hanno offuscato la serenità e le prestazioni. Sembra che dentro di lui si sia spezzato quel filo che teneva tutto assieme. Per questo Seb va coccolato, protetto, riempito di attenzioni e fiducia, senza, nello stesso tempo, tralasciare l’arrivo di Charles Leclerc che potrebbe rappresentare il futuro. Un momento delicato. Come trasportare un vassoio di uova in motorino sulle strade di Roma. Anche in questo caso può venire in soccorso la storia.
All’inizio dell’epopea Schumacher, anzi quando tutto doveva ancora cominciare, la Ferrari si ritrovò in una situazione perfino peggiore con il suo pilota. Dopo l’incidente con Villeneuve a Jerez nell’ultima gara del 1997, con il Mondiale perso proprio quando il sapore della vittoria aveva già invaso il palato come quello di un soufflé quando lo avvicinate alla bocca. Cancellato dalla classifica del campionato, condannato a insegnare educazione stradale, additato come un campione che non sa perdere, Michael Schumacher avrebbe potuto finire all’inferno senza passare dal via della stagione successiva. Attorno a lui trovò una squadra tostissima. Montezemolo e Todt respinsero al mittente le richieste di cacciare il loro gioiello. Brawn, Byrne e Martinelli pensarono al resto confezionando un’auto vincente. Peccato che la via crucis non fosse ancora finita. L’incidente con Coulthard a Spa nel 1998, l’uscita di pista con frattura di tibia e perone l’anno successivo per un problema meccanico mai confessato dalla squadra e dallo stesso pilota. L’unione fece la forza. Sembra una frase banale, ma è una splendida realtà come dicono quelli degli spot televisivi. La squadra non si sfaldò, restò unita e nel 2000 cominciò la serie vincente.
Seb va coccolato, protetto, riempito di attenzioni e fiducia, senza tralasciare l’arrivo di Charles Leclerc
Schumacher diventò campione del mondo con la Ferrari dopo 73 gare in Rosso, Vettel è ancora fermo a quota 62. Ha insomma ancora tempo per ripartire senza perdere il ritmo del suo idolo. Ha una squadra (per il momento) più debole e avversari più forti (Hamilton e la Mercedes) di quelli che aveva Schumacher, lui stesso non ha lo spessore di Michael, nonostante i quattro titoli mondiali. Ma se con una grande squadra il Mondiale lo ha sfiorato Massa e vinto Raikkonen, non ci sono ragioni perché non possa riuscirci Vettel. Per Seb il 2019 sarà una stagione senza domani, altri errori non gli sarebbero più perdonati. Oltretutto avrà un compagno di squadra che torna a essere avversario perché Leclerc, nonostante abbia corso tanti Gp quanti ne ha vinti Raikkonen, non è arrivato a Maranello per fare da bodyguard al suo capitano, ma per cogliere l’attimo fuggente. Servirà insomma un Vettel al 100 per cento, concentrato e senza nuvole in testa.
Maurizio Arrivabene è un bresciano tosto – non per altro soprannominato Iron Mauri – ormai 61enne, sopravvissuto alle Dakar corse con un amico, rimasto saldamente in sella a un’azienda come la Philip Morris mentre tutt’attorno a lui cambiavano i manager. Ha conquistato la fiducia di Andrea Agnelli prima e di Sergio Marchionne poi. Così è entrato nella Juve e si è preso la Gestione Sportiva della Ferrari. È vero che in Formula 1 portava solo denari e alla Ferrari ne ha dati tanti negli anni, ma non dimentichiamoci che in Formula 1 ha vinto anche chi fino all’anno prima vendeva maglioni (ogni riferimento a Briatore è voluto). Contano le qualità dell’uomo. La sua sicurezza, la sua autorevolezza, la sua capacità organizzativa. Il mix Arrivabene-Binotto ha permesso alla Ferrari di recuperare sulla Mercedes, di cancellare un’annata da zero vittorie con una da sei successi, possibile che senza Marchionne tutto sia crollato come un castello di sabbia sotto le onde? Basterebbe ricostruire quella diga.
E quindi rieccoci ancora ai box, anzi in fabbrica, anzi nei nuovissimi e efficientissimi (dal punto di vista energetico) locali della Gestione Sportiva ferrarista. Ma potrebbe anche non bastare, perché il destino della Ferrari si deciderà negli uffici torinesi del Lingotto dove l’ingegner Elkann senza più il parafulmine Marchionne, dovrà fare le mosse giuste, quelle che al nonno riuscivano quasi sempre e che lui per il momento aveva lasciato fare ad altri. In un momento storico in cui il mondo dell’automobile sta per affrontare una rivoluzione epocale, forse ancora più traumatica di quella che ci fu quando si passò dalle carrozze alle autovetture, c’è una Ferrari da non far scivolare nel precipizio. Serve la voce del padrone. Quella che era sempre suonata a ogni vigilia di Natale fin dai tempi del fondatore e che quest’anno è rimasta silenziosa, lasciando straparlare il Tapiro di Striscia la Notizia. Il 15 febbraio, giorno della presentazione della nuova monoposto, è dietro l’angolo. Salvate la Ferrari prima che sia troppo tardi. Serve a Fca, ma serve anche all’Italia di cui è da sempre un simbolo positivo. “Il successo è dentro ognuno di noi”, recita una delle frasi preferite da Schumacher. Che aggiungeva: “Senza la mia squadra io non sono niente”. Anche se non può recitarle personalmente, le sue lezioni possono essere ancora utilissime.