Il portiere che non doveva essere portiere. Petr Cech dà l'addio al calcio

L'estremo difensore ceco appende guanti e caschetto al chiodo. Si ritirerà a fine stagione: "Dopo aver vinto ogni trofeo possibile, sento di aver raggiunto quello che potevo conquistare"

Giovanni Battistuzzi

Quando nell'estate del 2004 José Mourinho si sedette per la prima volta sulla panchina del Chelsea si ritrovò in rosa il miglior portiere della precedente Premier League, l'italiano Carlo Cudicini – amatissimo dalla curva –, e un giovane ceco secco e allampanato che era appena arrivato dalla Francia con un pedigree di grandi parate, qualche errore di troppo e fresco di premio come miglior portiere dell'Europeo 2004 giocato in Portogallo.

 

Quel giovane si chiamava Petr Cech e il giorno della presentazione, in mezzo ad Arjen Robben e Mateja Kezman, aveva lo sguardo smarrito e un evidente timore reverenziale rispetto ai quei due nuovi compagni di squadra che nel biennio precedente avevano strabiliato l'Olanda e l'Europa con la maglia biancorossa del Psv Eindhoven. Il lungagnone di Plzeň sembrava essere capitato lì per caso, eppure Mou per lui aveva usato parole di miele: "Ha grandi mezzi atletici, ottimi riflessi e un buon senso della posizione. Se starà ad ascoltare i consigli dei miei collaboratori e avrà la pazienza di imparare da Cudicini potrà fare bene nei prossimi anni".

 

Su una cosa sbagliò il portoghese: non gli ci vollero anni, gli bastò un mese. Il 15 agosto 2004, davanti ai 41.813 spettatori che occupavano i seggiolini dello Stamford Bridge, per la partita contro il Manchester United a difendere i pali dei Blues c'era Cech. Al portiere italiano era stato fatale un precampionato così e così e due errori nell'amichevole persa per 3-2 contro il Milan di Ancelotti.

   

 

Petr Cech divenne intoccabile. Da quel giorno di agosto iniziò ad abbandonare il suo sguardo smarrito e il suo timore reverenziale per mettersi addosso una maschera priva di espressione. Il suo sorriso da adolescente si trasformò in un muso da duro. Lui da timido ragazzo che non osava urlare ai compagni si trasformò in un "dittatore dell'aria di rigore, una sorta di salvagente d'emergenza che copriva la porta e faceva galleggiare la squadra anche se iniziava a prendere acqua", o almeno per John Terry, capitano del Chelsea, uno dei più forti difensori inglesi di quegli anni. Divenne "più che un portiere, un muro invalicabile", o almeno per Gordon Banks, l'estremo difensore migliore che il calcio inglese abbia mai avuto.

   

Petr Cech da quel giorno di agosto iniziò a far vedere a tutti quel suo modo strano di stare tra i pali, essenziale e spettacolare allo stesso tempo, basato su un'unica regola: "Parare il parabile è anzitutto un gioco di posizione. Bisogna indovinare sempre la lettura dell'azione e farsi trovare pronto al punto giusto. Per il resto ci vuole un po' di coraggio, un po' di riflessi pronti, soprattutto un gran bel culo". Una regola che gli ha permesso di rimanere imbattuto dal 12 dicembre 2004 al 5 marzo 2005 per 1.024 minuti, che in Premier League è record assoluto.

 

"Giocare in difesa davanti a Petr è rilassante, sai sempre che in caso di errore hai le sue mani come garanzia", aveva ammesso Ricardo Carvalho dopo la vittoria nel campionato inglese nella stagione 2004/2005, quella del secondo titolo nazionale nella storia dei Blues a cinquant'anni esatti da quello conquistato dalla coppia Ted Drake–Roy Bentley, il primo in panchina a dirigere, il secondo in campo a segnare.

 

Una sicurezza che si poteva interrompere il 16 ottobre 2006 sul campo del Reading, quando una ginocchiata di Hunt fratturò il cranio del ceco. Cech era uscito dai pali per recuperare il pallone al limite destro dell'area di porta. Sembrava una formalità. L'ala irlandese era in ritardo, aveva tutto il tempo di fermarsi o cambiare direzione tanto la palla era già persa, ormai nelle mani dell'estremo difensore dei Blues. Non lo fece. L'impatto fu duro, il lungagnone di Plzeň per terra che respirava affannosamente. Provarono ad alzarlo, non stava in piedi. Lo portano in ospedale per accertamenti e i medici scoprono che la situazione se non disperata è certamente molto grave e il Royal Berkshire dov'è ricoverato non è attrezzato per l’alta neurochirurgia. Lo trasferiscono a Oxford dove viene operato d'urgenza. I medici diranno che si è salvato per miracolo da problemi molto più seri.

 

 

Cech pensò di finirla lì col calcio. D'altra parte non aveva mai sognato di fare il portiere. Aveva iniziato come attaccante e ci sapeva fare. Segnava spesso, giocava talmente bene che gli avevano preventivato una carriera da goleador. In porta si ritrovò quando si ruppe una gamba. Aveva iniziato appena a correre e non poteva calciare. Vai in porta, gli disse l'allenatore. Non uscì più. Parava perché gli veniva bene. Se invece avesse seguito la passione avrebbe continuato a recitare, come aveva iniziato a fare per il telefilm "The Territory of White deer". Era il 1990, aveva otto anni e la faccia giusta per la tv. Furono i suoi genitori a convincerlo che lo sport era meglio del cinema. Fu Mourinho a convincerlo che il Chelsea aveva bisogno di lui. Restò fuori oltre due mesi e quando ritornò in campo lo fece con un caschetto protettivo che non si tolse più. Diventò il suo marchio, tanto che si lamentò con la Ea Sport per l'assenza del copricapo nell'edizione demo di Fifa 2008. I programmatori chiesero scusa e glielo disegnarono in testa pure sul videogioco.

 

Quel caschetto è da oltre un decennio sulla sua testa, ha visto le sue mani parare l'imparabile, lo ha seguito quando ricevette il premio per miglior portiere della Champions League 2007-2008, una delle sue stagioni migliori, quella nella quale aveva superato qualsiasi altro collega: secondo i dati di Transfertmarkt nessun altro numero uno era stato decisivo quanto Cech per numero di punti fatti conquistare alla squadra.

 

Fece addirittura meglio rispetto a quattro anni più tardi. Era il 19 maggio 2012, era il minuto 93 della finale di Champions League quando le sue mani catturarono il rigore calciato dall'ex compagno di squadra Arjen Robben, quel giorno in maglia rossa del Bayern Monaco, regalando così ai compagni i supplementari.

 

 

Quelle sue manone si ripeterono poco dopo durante i rigori che decisero l'incontro. Prima la destra fermò il tiro di Ivaca Olić, poi la sinistra quello di Bastian Schweinsteiger. Fu l'apoteosi: Chelsea campione d'Europa, una cosa mai vista.

 

 

Quel caschetto non lo vedremo più in campo dall'estate prossima. Petr Cech ha annunciato che si ritirerà al termine di questa stagione. "E' la mia 20ª stagione da calciatore professionista. Sento che è arrivato il momento giusto per annunciare il mio ritiro. Dopo aver giocato 15 anni in Premier League e aver vinto ogni singolo trofeo possibile, sento di aver raggiunto tutto ciò che potevo conquistare. Continuerò ad allenarmi duramente con l'Arsenal nella speranza di vincere un altro trofeo entro la fine di questa annata, dopodiché guarderò al futuro per capire cosa mi riserva la vita fuori dal campo", ha annunciato su Instagram. Chiuderà in quell'Arsenal che ha creduto in lui quando i muscoli della schiena avevano iniziato a presentare il conto e il Chelsea aveva deciso di puntare sul belga Thibaut Courtois. Lui se ne andò salutando i tifosi, arrabbiato con la società, deciso a dimostrare di essere ancora importante, convinto di poter essere ancora protagonista. Lo è stato. Poche settimane prima del suo addio, il tecnico Arsene Wenger dichiarò di sentirsi onorato di avere allenato un portiere come Cech: "Giocatori del genere ne nascono pochi, si potesse clonare lo farei subito, l'Arsenal farebbe il miglior investimento della sua storia".

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