Stadio, non teatro
Bentornata serie A, sperando che non si confonda un gioco con la vita. Fermiamo il benpensante che è in noi
Torna il campionato di calcio, sempre più invischiato in avvitamenti sociali e linguistici. Domenica scorsa, nel weekend di Coppa Italia, mi è capitato di sentire un pezzo di radiocronaca della partita Bologna-Juventus, purtroppo dall’esito scontato. A un certo punto della partita, i tifosi felsinei fischiano e rumoreggiano dileggiando Kean, il giovane giocatore di colore della capolista. I giornalisti si allarmano. Oddio, non sarà mica un coro razzista? Oh no, ancora? Passa qualche minuto di angoscia dove, dimentichi della partita, i due cronisti riassumono le vicende di urla incriminate delle ultime settimane e il dibattito Ancelotti-arbitri sull’opportunità di sospendere le partite. Ma ecco che, all’improvviso, accade il miracolo: un altro giocatore della squadra piemontese, non di colore, sbaglia un tiro e il pubblico – ah, liberazione! – fischia e rumoreggia beffardo ancora una volta. Oh, la gioia dei cronisti: non si trattava di razzismo, allora; fischiano e insultano tutti, anche i bianchi; ah, tutto bene allora, proseguiamo pure, pericolo scampato, che bello il mondo e viva il calcio!
Qualche domanda sorge al povero ascoltatore: ma davvero stanno esultando perché insultano tutti? Ma se l’insulto è sbagliato, lo è per tutti e verso tutti, no? Se è tanto sbagliato, più persone coinvolge e peggio è o no? E poi, allora, perché i falli sui giocatori di colore non vengono sanzionati più degli altri? Non c’è anche lì l’aggravante del razzismo? Non c’è qualcosa che non quadra?
La prima cosa che non quadra è la non comprensione del tifo dentro lo stadio. Ci saranno sicuramente tifosi razzisti, come ci sono cittadini razzisti, ma i tifosi in genere cercano di cogliere qualunque particolare degli avversari che possa essere oggetto di ironia e arma linguistico-verbale. Tanto per fare qualche esempio: a Torino, i giocatori e i tifosi della Juventus sono “gobbi”, usato con ogni genere di tono e aggettivo dispregiativo. Il soprannome, in realtà, viene da un lontano derby in cui i bianconeri avevano le maglie un po’ larghe, che formavano una gobba alle spalle dei giocatori in corsa. Da allora, gobbi. Ci sono poi gli inevitabili insulti geografico-sociali – “terroni” o il meno frequente “polentoni” –, quelli solo sociali – “bauscia” –, quelli intracalcistici – “perdenti”, “sfigati” e varie traduzioni dell’inglese loser – e persino storico-letterari – l’indimenticabile “Giulietta è ’na zoccola” dei tifosi partenopei in trasferta a Verona. Per farla breve, come in ogni campanilismo, qualsiasi differenza è buona per l’insulto e lo sfottò. Il razzismo c’entra poco a meno di non considerare poi anche il maglismo, il geografismo, lo sfortunatismo e, in omaggio ai tifosi napoletani, lo storicismo.
La seconda cosa che non quadra è il confondere il gioco e la vita. Già, come quando si gioca a tombola o risiko o a un videogioco, l’agonismo fino all’inimicizia, lo sfottò e persino la scorrettezza (punita se, e solo se, rilevata) fanno parte dell’evento, che è però delimitato e separato dal resto della vita. Mentre su un campo di calcio si può sgambettare l’avversario, non si può farlo mentre si corre verso l’autobus. Mentre ci si può alleare per distruggere le armate dello zio, non si può distruggere lo zio stesso, magari dopo il pranzo di Natale. Bisognerebbe punire duramente – e non secondo i comodi delle televisioni – i tifosi che confondono gioco e vita e, magari sospendendo davvero il campionato, bisognerebbe punire il confuso tifoso dentro ognuno di noi che condanna sempre gli ultrà militarizzati e ideologizzati di altre squadre mentre conserva una stupida connivenza con quelli della propria squadra. Ma, mentre si dovrebbe punire con durezza chi non capisce la distinzione fra gioco e vita – non si ammazza nessuno per un gioco –, ciò che poi accade dentro lo stadio è gioco e deve rimanere nello stadio, conservando l’istinto gioioso e competitivo che alle volte aguzza l’ingegno fino a capolavori di autoironia, come quella degli stessi tifosi del Bologna che urlano “che ce frega di Ronaldo, noi abbiamo Santander” o quelli del Verona quasi retrocesso di anni fa che gridavano “vinceremo il tricolor”. Lo stadio non è un teatro, è un gioco. Punite chi pensa che sia una guerra vera, ma il gioco lasciatelo in pace. Bentornato campionato, cerca di fermare la Juve e il benpensante che è in ciascuno di noi.