Foto LaPresse

Marcus Rashford, il predestinato

Piero Vietti

La rinascita del Manchester United passa dai piedi del suo attaccante. Fino a dove può arrivare il giovane dei Red Devils?

La storia del calcio è piena di predestinati che non ce l’hanno fatta, di paragoni con grandi del passato diventati pietre tombali sulle spalle troppo fragili di giovani esordienti in prima squadra. Quanti giocatori hanno magari segnato alla prima partita giocata, sono stati osannati, additati come “nuovo qualcuno di famoso”, e poi si sono persi nel tempo come lacrime dopo un gol subito al 97’. Ci sono campionati in cui esordire in prima squadra prima dei vent’anni è normale. Tra questi non c’è l’Italia, dove il giustamente esaltato Nicolò Zaniolo è una felice eccezione. C’è però l’Inghilterra: in Premier League non è così strano vedere ragazzi di 19-20 anni giocare titolari in squadre importanti senza necessariamente bruciarsi. Non sono tutti uguali, però. Il ventunenne attaccante del Manchester United, Marcus Rashford, non è uguale a nessuno. Quando nel febbraio del 2016, diciottenne, fece il suo esordio in prima squadra segnando una doppietta al Midtjylland in Europa League, a molti venne il sospetto che quei due gol non fossero appena un colpo di fortuna di un bravo attaccante delle giovanili contro una squadra che non lascerà pagine memorabili nella storia del calcio (la partita finì 5-1): con quei due gol Rashford era diventato il più giovane giocatore nella storia dello United a segnare in una competizione europea. Il record precedente era di George Best.

 

 

Doppietta all’esordio, in Europa League, a 18 anni. Tre giorni dopo altri due gol, all’Arsenal. E poi quello nel derby al City

Con Solskjær ha cominciato a segnare come mai prima: è già a 8 reti, più di quelle segnate un anno fa in Premier

Era il 25 febbraio, ma neppure i più ottimisti avrebbero immaginato che tre anni dopo il ragazzo nato a Manchester e cresciuto nelle giovanili dei Red Devils avrebbe raccolto 150 presenze segnando 41 gol. Tre giorni dopo l’esordio europeo, il manager di allora, Louis Van Gaal, lo schierò titolare in campionato, contro l’Arsenal: un’altra doppietta, questa volta decisiva per il 3-2 finale. Fortuna dei principianti? Meno di un mese dopo c’è il derby di Manchester, in casa del City. Vince lo United 1-0, segna Rashford. Un gol di potenza, tecnica e velocità. Il 20 marzo 2016 Marcus diventa il giocatore più giovane dei Red Devils a segnare nella stracittadina. Il record precedente era di Wayne Rooney. Impossibile per Roy Hodgson non convocarlo in Nazionale. Dopo una sola partita nell’Under 21 – segna una tripletta alla Norvegia – il diciottenne Rashford gioca la prima con la maglia dei Tre Leoni nel maggio del 2016. È un’amichevole contro l’Australia, e Rashford segna il suo primo gol dopo appena 135 secondi.

 

 

A giugno fa parte della squadra che gioca l’Europeo in Francia, e tanto per cambiare segna un altro record: è il calciatore più giovane a scendere in campo in un Europeo nella storia della Nazionale inglese.

 

La storia del calcio è piena di predestinati che non ce l’hanno fatta. Non è il caso di Marcus Rashford, che anche nella stagione successiva al suo esordio, quella con José Mourinho sulla panchina del Manchester United, gioca e segna. Undici presenze e due gol in Europa League, poi vinta a fine stagione, 32 volte in campo e cinque gol in Premier League. Rashford gioca e segna con naturalezza, lo fa senza eccessi in campo e fuori, quasi ci si dimentica di lui. Non fa notizia, non fa cazzate, non rilascia dichiarazioni strane né appare sbronzo sui social network. A Manchester ci credono: Marcus è la dimostrazione che, come fece il grande manager Alex Ferguson, il futuro della squadra si può costruire attorno al settore giovanile.

 

Rashford è nato a Manchester, è cresciuto con la maglia rossa che fu di Giggs, Scholes e Beckham addosso, fa la cosa che ai tifosi dello United piace di più, attacca e segna. Sorride spesso, non ha nulla di posticcio o costruito, dà l’idea di divertirsi e basta, senza mollare mai. Là davanti può giocare ovunque: centravanti, seconda punta, esterno. Mou lo fa giocare soprattutto ala, durante il suo secondo anno ha troppi giocatori offensivi, e Rashford parte spesso dalla panchina. Raccoglie comunque 36 presenze in campionato, 53 in tutto con le coppe, segna 12 reti. E ha solo vent’anni.

 

Nell’estate del 2018 fa parte della Nazionale inglese più forte degli ultimi venticinque anni, non segna ma gioca al Mondiale. Segnerà nella vittoria storica a Siviglia contro la Spagna in Nations League pochi mesi dopo. “Il ragazzo è destinato a stravolgere le squadre in cui gioca – ha detto di lui Gary Neville, una leggenda del Manchester United – è sulla strada giusta per diventare uno che lascerà un segno”.

 

Sono 146 i giocatori che nella storia del club hanno raggiunto le 150 presenze, ma solo quattro lo hanno fatto quando erano più giovani di lui: Whiteside, Giggs, Best e Edwards. Nessuno di loro, però, può competere con Rashford per la rapidità con cui ha raggiunto quella cifra: da quando ha debuttato, lo United ha giocato 170 partite, lasciando fuori il ragazzo soltanto venti volte. Meglio di tutti, anche di Rooney e Cristiano Ronaldo, che prima di raggiungere il traguardo delle 150 presenze sedettero in panchina rispettivamente 25 e 29 volte. Non sono statistiche per nerd appassionati, ma numeri utili per capire che probabilmente al momento al mondo non c’è un giovane così maturo come lui.

 

E, ultimamente, anche decisivo.

 

Da quando Mourinho è fuggito da Manchester, lasciando macerie in un gruppo di giocatori che sul campo rendeva molto meno di quello che prometteva nelle previsioni, e al suo posto è arrivato il grande ex Ole Gunnar Solskjær, Rashford non solo è rinato, ma sembra diventato improvvisamente un altro: più libero, più coraggioso, più devastante. L’azione del suo assist a Pogba contro il Bournemouth, il 30 dicembre scorso, è un capolavoro di velocità, tecnica, potenza e intelligenza. Marcus stoppa con il sinistro un lancio lungo, si allarga a destra e si ferma sulla linea laterale. Lì fa fuori un avversario con due finte e uno scatto da fermo, vince un rimpallo, va verso l’area dove fa fuori un altro difensore con un’altra finta, lo supera e mette un pallone in mezzo che il centrocampista francese deve solo spingere in porta.

 

A 21 anni compiuti da poco, Marcus Rashford promette di essere uno degli attaccanti più forti del mondo nel prossimo decennio. Il destino ha voluto che imparasse da Van Gaal prima, da Mourinho poi e da Solskjær adesso. Allenatori che hanno fatto la storia del calcio i primi due, giocatore che ha scritto uno dei capitoli più esaltanti della storia dello United il terzo: nel 1999 Solskjær segnò il gol della vittoria nella finale di Champions League a Barcellona contro il Bayern Monaco, da 0-1 a 2-1 in due minuti, dal 91’ al 93’.

 

 

“Potrei passargli un po’ dell’intelligenza che avevo in area – ha detto il neoallenatore dello United – un po’ di calma davanti alla porta”. I 21 anni di Rashford si vedono quando il ragazzo entra in area: a volte ha fretta di concludere, viene preso dalla furia di chi ha voglia di spaccare la rete. Con Solskjær in panchina Marcus ha cominciato a segnare come mai prima: è già a 8 reti quest’anno, più di tutte quelle segnate lo scorso anno in Premier. Ha una vita davanti a sé, indossa la maglia più bella del mondo e ha una grazia capitata a pochi: è un ragazzo di Manchester, cresciuto respirando l’aria di uno degli stadi più affascinanti e nel settore giovanile da cui è uscita una generazione di calciatori tra le più vincenti. Per diventare come loro non gli resta che guardare e seguire la storia. E quando è sul prato dell’Old Trafford farsi guidare dall’urlo della folla, che è tornata a cantare con più convinzione uno dei cori che più ama intonare: “We’re Man United, we want to attack!”. È quello che Rashford sa fare meglio.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.