Cinquanta volte Batigol. Quello che non possiamo dimenticare di Batistuta

Compie cinquant'anni l'attaccante argentino che arrivò a Firenze (quasi) per caso, divenne l'idolo dei tifosi della Fiorentina prima di diventare il goleador della Roma dello scudetto 

Giovanni Battistuzzi

Quando Mario Cecchi Gori nel gennaio del 1990 incontrò il giovane Diego Latorre era convinto di avere davanti agli occhi il miglior affare della sua vita. Il ragazzo aveva talento, il tocco di palla dei campioni e la testa sempre alta, quella di chi vede il gioco prima che questo si palesi. Glielo aveva descritto come un fenomeno e quando lo vide giocare se ne convinse a tal punto da comprarlo all'istante anche a costo di lasciarlo al Boca Junior per un'altra stagione avendo già quattro stranieri in rosa (all'epoca era il massimo consentito). In Argentina lo chiamavano Gambetita, finta, e di finte ne faceva tante da mandare in confusione gli avversari. E poi che abilità nei passaggi, che cross precisi, che dribbling. "Lo paragonano a Maradona, a me sembra un Baggio all'ennesima potenza". Lui disse di essere "un dieci che segna e fa segnare".

 

E quando il presidente lo portò a farsi un giro nello stadio che sarebbe stato casa sua, Latorre espresse un desiderio: "Non sarebbe male che lei comprasse anche il mio compagno d'attacco". Cecchi Gori chiese perché. "E' giovane, è forte e soprattutto assieme a lui mi ci trovo bene". Il presidente della Viola allargò le braccia e disse che c'avrebbe pensato che come idea poteva andare. Mandò alcuni dei suoi più fidati collaboratori a controllare chi fosse questo attaccante. Gli dissero che lo chiamavano Batman, che si chiamava Gabriel Omar Batistuta e che costava cinque miliardi di lire, gli stessi che aveva appena sborsato per Latorre. Cecchi Gori disse di lasciare stare, che tanto aveva già Borgonovo. Quando qualche mese dopo gli dissero che quel Batman era diventato capocannoniere in campionato e in coppa Libertadores e che era nelle mire della Juventus, Cecchi Gori, disse loro di comprarlo subito, a qualsiasi prezzo. Che se diventava forte davvero e saltava fuori che l'aveva in pugno la Fiorentina e che se l'era fatto scappare, a Firenze l'avrebbero linciato. Aveva visto cosa era successo ai suoi predecessori con la cessione di Roberto Baggio e non voleva rischiare. Sborsò 11 miliardi di lire. Furono la sua fortuna.

 

Latorre per problemi burocratici rimase per due anni a Buenos Aires, Batistuta invece subito, nel mercato estivo. Gigi Radice, il tecnico che guidava la Fiorentina, ne rimase stupito. E rimase stupito anche quando l'anno dopo arrivò Latorre. Ma se del primo ne amava la potenza, la dedizione, la capacità di prendersi qualsiasi tipo di responsabilità in campo, del secondo ne odiò il pressappochismo, la velleità da primadonna, la scarsa attitudine al sacrificio. Il fantasista restò a Firenze dal settembre del 1992 al febbraio del 1993 e in quei sei mesi si alzò dalla panchina per scendere in campo soltanto due volte, per un totale di diciotto minuti.

 

Batistuta invece a Firenze rimase nove anni, segnò 207 gol in 332 partite, divenne l'idolo della curva, l'uomo della rinascita.

 

Tredici gol il primo anno con Radice in panchina. Sedici gol nella seconda, quella della retrocessione in serie B dopo l'ispiegabile cacciata del tecnico quando la squadra era seconda in classifica e la malaugurata gestione di Aldo Agroppi.

 

Batistuta scese di categoria nonostante le offerte, trascinò la Viola di nuovo in serie A e divenne l'idolo incontrastato della Fiesole che dedicò all'attaccante almeno una ventina di cori diversi. Alla Fiorentina Batistuta vinse una Coppa Italia e una Supercoppa italiana. In campionato però ottenne solo due terzi posti e una malinconia da sconfitte.

  

E quando Cecchi Gori gli annunciò di non voler continuare con Trapattoni e di aver già ceduto l'amico Abel Balbo alla Roma, Batistuta si immalinconì ancora di più. Chiese al presidente di cederlo all'Inter. Per 70 miliardi, di cui 50 subito e 20 dilazionati in due anni, Batigol si accasò alla Roma nell'estate 2000. Nove mesi dopo conquistò lo Scudetto tanto agognato.

 

All'Inter ci finì nel gennaio del 2003, ma era già un giocatore malandato, con problemi alle ginocchia, incapace di essere il goleador di qualche anno prima. Chiuse la carriera l'anno successivo in Quatar, all'Al-Arabi, giusto in tempo per firmare il 300esimo gol della sua carriera

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