Il Super Bowl e il grande romanzo del football
È il weekend della finale della Nfl tra Patriots e Rams. Guida necessaria a uno sport che non è solo “bloccare e placcare”, ma epica e botte, mito americano e tragedia, lavoro, gloria e molto tifo
La zona d’ombra (titolo originale Concussion), con Will Smitt e Alec Baldwin, è uno dei film più belli in assoluto sul football americano. Racconta la storia di Bennet Omalu (Smith), medico nigeriano emigrato a Pittsburgh, che nei primi anni 2000, in seguito alle autopsie effettuate su alcuni ex giocatori di football morti prematuramente, scoprì la Encefalopatia traumatica cronica, una incurabile malattia del cervello, causata dai ripetuti colpi alla testa. E negli Stati Uniti, se giochi a football, i colpi alla testa cominci a prenderli quando hai sei anni, e non smetti praticamente mai, finché non ti ritiri. Centinaia di migliaia di colpi alla testa. Omalu fu a lungo osteggiato da tutti, in particolare dalla National Football League, la più potente lega sportiva professionistica del mondo, che non voleva, non poteva permettere che la religione laica d’America venisse messa in discussione. Ci voleva un immigrato, un “non americano”, uno che non fosse cresciuto dentro la cultura del football, per osare tanto. Ma alla fine Omalu ce l’ha fatta, il tema dei traumi cranici e della tutela della salute degli atleti è oggi al centro del dibattito sportivo americano, e anche i regolamenti sono stati modificati per limitare al massimo i colpi violenti alla testa. È una bella storia americana, e una bella storia di sport.
Ma c’è una battuta, nel film, che lo rende memorabile, e non è di Omalu, ma del dottor Julian Bailes (Baldwin), ex medico sociale dei Pittsburgh Steelers, che non ne può più di vedere morire a cinquant’anni i suoi ex atleti, i suoi amici, e decide di aiutare Omalu.
I due entrano in confidenza, si raccontano a vicenda, e a un certo punto, a questo africano spietatamente razionale, che proprio non riesce a capire come una persona possa mettere a repentaglio la propria salute, la propria vita, per uno sport, e capisce ancora meno il motivo per cui milioni di persone possano appassionarsi a un gioco così duro e feroce e pericoloso come il football, Bailes dà una risposta eccezionale: “È davvero uno sport violento e irragionevole... ma è anche Shakespeare.”
Gli sceneggiatori de La zona d’ombra non lo sanno, ma con questa battuta hanno dato un grande aiuto a moltissime persone, tutti quei non americani che chissà come si sono appassionati a questo fantastico sport, e sono sempre stati considerati dai normali appassionati delle discipline europee come animali esotici, gente bizzarra, non si sa se solo snob o proprio fuori di testa. “Ma come fa a piacerti il football americano?”, ci hanno chiesto centinaia di volte. E adesso, finalmente, abbiamo la risposta, ce l’ha data il dottor Bailes: “perché è violento, irragionevole, ma è anche Shakespeare”. Il football infatti non è solo lo sport nello stesso tempo più fisico e più tattico che ci sia, non è solo uno sport incredibilmente spettacolare e ferocemente appassionante, ma è anche, ogni volta, ogni partita, un romanzo, e una tragedia. Quattro ore che intrecciano vite, storie, miti, tradizioni, sogni, destini. C’è tutto. Sempre. Basta pensare a due settimane fa, la domenica delle finali di Conference, le due partite che dovevano decidere le squadre che sarebbero andate al Super Bowl del 3 febbraio: la finale della National Football Conference a New Orleans, i Saints contro i Los Angeles Rams; quella della American Football Conference a Kansas City, con i Chiefs che ospitavano i “soliti” New England Patriots. Due partite eccezionali, finite entrambe – prima volta nella storia – ai supplementari, due partite che hanno visto il pronostico ribaltato, e persino, a New Orleans, una coda di polemiche molto italiane sull’arbitraggio. E due partite che, romanzo nel romanzo, tragedia nella tragedia, vedevano lo scontro tra quattro quarterback, due epoche, e due modi opposti di interpretare il ruolo non solo da un punto di vista tecnico, ma anche culturale e storico. Due modi opposti di rappresentare il sogno americano.
Quattro ore che intrecciano vite, storie, miti, tradizioni, sogni, destini. C’è tutto. Sempre
In nessun altro sport esiste il concetto di “durezza necessaria”, e la conseguente penalità per quella “non necessaria”
Drew Brees, qb texano di New Orleans, 40 anni, che tra i vari record vanta quello del maggior numero di yard lanciate in carriera, e che si è imposto negli anni come un grandissimo nonostante un fisico un po’ storto, molto lontano dallo stereotipo del quarterback, giocava contro Jared Goff, 24 anni, californiano, che invece il phisique du role che l’ha eccome: alto, bello e biondo, il classico predestinato. Ha vinto Goff, con un discreto aiuto arbitrale.
Nel gelo di Kansas City, invece, Patrick Mahomes, texano come Brees, 23 anni, la grande rivelazione della stagione, e una faccia che racconta la frontiera americana, e i suoi incroci di popoli, meglio di tutti i saggi del mondo, affrontava l’ideale Wasp fatto carne, il quarterback che molti considerano il miglior interprete del ruolo di tutti i tempi, il marito della supermodella Gisele Bündchen, il californiano (come Goff), ma adottatto da Boston, Tom Brady, che ha 41 anni, e di Mahones potrebbe essere il padre. Contro tutto, e contro tutti, ha vinto Brady: dopo un ultimo quarto che verrà ricordato come uno dei più bei finali di partita di sempre di ogni sport, finito in parità, New England ha vinto il sorteggio, e a quel punto, chi doveva capire, ha capito. Come in tutte le tragedie, anche nel football il Fato vuole giocare un ruolo decisivo. La regola dei supplementari prevede che il primo che segna un touchdown vince la partita. Per cui, chi vince il sorteggio, e ha la palla in mano, può chiudere il discorso senza lasciare agli altri neanche la possibilità di pareggiare. E Tom Brady ha preso la palla, e come se fosse normale, scontato, quasi banale, ha portato New England in meta, e ha chiuso il discorso, confermando che, almeno per quanto riguarda gli ultimi vent’anni, anche nel football, che pure fa di tutto per garantire l’equilibrio del torneo, a partire dal salary cap (quando lo capiremo anche in Europa?), vale il teorema Lineker: “Si gioca in undici contro undici, e alla fine vincono i Patriots”.
Quanta America, nel football.
C’è la esplicita componente metaforica del gioco, che riproduce ad ogni azione la conquista del West, con il campo da conquistare una yard alla volta (dai colonizzatori), ma anche da difendere una yard alla volta (dai nativi). C’è la forza, la violenza persino, che si mette al servizio del talento e dell’intelligenza, e viceversa (in nessun altro sport esiste il concetto di “durezza necessaria”, e la conseguente penalità per quella “non necessaria”). C’è il valore che, come in nessun altro sport di squadra, viene riconosciuto al leader, al più forte del gruppo, incarnato dal quarterback. C’è la politica, in particolare il tema razziale, che ha spesso trovato nel football uno straordinario megafono, e lo si è visto negli ultimi anni, con le proteste di molti giocatori aderenti al “Black Lives Matter” che rifiutano di alzarsi in piedi durante l’inno nazionale, scatenando la furia di Trump.
E ci sono le innumerevoli declinazioni del sogno americano che diventa realtà sul campo, spesso nel fango e nel gelo, con il casco in testa, e la palla in mano, o in aria.
Tra le tante storie che grazie al football hanno deviato da un destino spietato, anche questo molto americano, di povertà ed emarginazione, ricordiamone una per tutte, quella di un ragazzino gracile nato a New York nel 1913, i nonni di Salerno e Calvello (Basilicata): doveva diventare, nella migliore delle ipotesi, un prete, e invece è considerato il fondatore del football moderno (il trofeo del Super Bowl porta il suo nome): Vince Lombardi, allenatore dei Green Bay Packer negli anni Sessanta, coi quali vinse i primi due Super Bowl della storia (1966, 1967), grande innovatore dei metodi di allenamento, e strepitoso coniatore di aforismi: “il dizionario è l’unico posto dove la gloria viene prima del lavoro”.
E non è per caso, perché il football è tutto un concatenarsi di storie, che il nome di Lombardi sia legato indissolubilmente alla squadra per certi versi più affascinante della storia del gioco. Perché chiunque al mondo conosce le grandi città americane, praticamente tutte presenti nella NFL, ma se non fosse per il football nessuno avrebbe mai sentito parlare di questo posto di taglialegna, Green Bay, Wisconsin, centomila abitanti, praticamente un paesello, rispetto alle altre città che ospitano una franchigia Nfl. Come è stato possibile? E come può esserlo ancora? È possibile perché nella terra del capitalismo sfrenato, come direbbe un sindacalista della Cgil, e del capitalismo sfrenato applicato allo sport, si è realizzato il miglior esempio al mondo di proprietà popolare di un team professionistico. Altro che Barcellona. I Green Bay Packers sono l’unico team no-profit di tutte le quattro leghe professionistiche americane, e appartengono alla città. La squadra è la città, e la città è la squadra. Infatti, se cercate su Wikipedia “Green Bay”, la prima fotografia che compare è quella del Lambeau Field, lo stadio, che è ben più di uno stadio, ma è una cattedrale laica, il luogo simbolo e il cuore pulsante di una intera comunità, che ha trovato nel football il suo cemento, la sua ragione di essere popolo, e non solo pubblico, non solo tifosi.
Già, i tifosi. Di tutti gli stereotipi che in Italia circondano il football americano, quelli intorno al pubblico degli stadi di football sono di sicuro i più ingiusti, arroganti e fastidiosi. Dall’alto dei nostri stadi fatiscenti e spesso vuoti, e dei nostri ululati, ci permettiamo di ironizzare, immaginandoci migliaia e migliaia di “ciccioni, ciccione e bambini vestiti da palombaro” che ogni domenica si spiaggiano sugli spalti ruttando birra e coca-cola tra un cheeseburger e un’aletta di pollo. Niente di più falso.
Lasciamo pure stare la mistica adunata del Lambeau Field, ma quasi ovunque assistere dal vivo a un incontro di football è un’esperienza straordinariamente coinvolgente. Non tanto per le rivalità tra tifoserie - che comunque esistono, ma che nella NFL sono in parte svuotate dal fatto che in USA il campanilismo trova sbocco soprattutto nella NCAA, la lega dei college - quanto per la partecipazione “attiva” del pubblico al gioco.
Il coinvolgimento vocale dei tifosi sugli spalti è infatti cercato e stimolato in tutti i modi (“get loud” compare spesso sugli schermi degli stadi durante la partita), perché può servire a vincere, al di là del supporto emotivo ai giocatori. La comunicazione tra panchina e quarterback, e tra quarterback e il resto della squadra, è nel football fondamentale. I giocatori devono potersi sentire, ma se intorno ci sono ottantamila persone che urlano a squarciagola, non si sente niente, si fatica a chiamare gli schemi, e si perde terreno. Jared Goff, contro New Orleans, nella finale comunque poi vinta da Los Angeles, è stato più volte inquadrato mentre disperatamente si metteva le mani sulle orecchie, per cercare, nel frastuono del Superdome, di capire le indicazioni che gli arrivavano via auricolare dalla panchina. A Seattle, in particolare, sono specializzati: in un playoff di alcuni anni fa, fu – letteralmente - il pubblico dei Seahawks a vincere la partita, costringendo, con la voce, con il tifo, i malcapitati New York Giants a un errore dietro l’altro. Insomma, il tifo è strutturale al gioco, e sono gli stadi stessi a stimolarlo, così come ogni particolare, dentro uno stadio di football, è volto ad alimentare nei tifosi il senso di appartenenza: memoria, tradizione, comunità, sogno collettivo e condiviso.
Gli americani hanno una parola intraducibile, per esprimere tutto questo: heritage. È qualcosa che ha a che fare con i nostri aspetti più profondi e antichi, con la nostra necessità di condividere con gli altri una dimensione immateriale, qualcosa che ha a che fare col mito. Il solito Vince Lombardi, lo aveva capito perfettamente: “Il football? Bloccare e placcare. Tutto il resto è mitologia.” Ed è tutto il resto, quello che conta davvero.