I Mondiali di sci, la caduta di Lindsey e il lago ghiacciato alle nostre spalle
Tre giorni ad Åre, in Svezia, per vedere le ultime discese di Vonn, i due centesimi che separano un oro da un argento e la gente riempire festante le tribune
Quando Lindsey Vonn è al cancelletto di partenza, martedì mattina, per l’ultimo Super G della sua carriera, ad Åre, gli spalti vengono attraversati dal fremito dei grandi momenti. “È la sua ultima gara questa, vero?”, chiede qualcuno al suo vicino. “Non è detto, forse gareggia anche venerdì”. Certo è che questa è la sua specialità, quella in cui ha vinto 28 gare e cinque coppe. Siamo sulla tribuna davanti al traguardo, i piedi congelati e gli occhi che cercano la partenza lassù in alto, da qualche parte. Non capita tutti i giorni di assistere alla scena finale recitata da una delle più grandi atlete nella storia del suo sport. Åre è la stazione sciistica svedese più famosa. Vicina al confine con la Norvegia, non è il posto più agevole del mondo da raggiungere partendo dall’Italia. Tre aerei, nel migliore dei casi due, poi un paio d’ore di auto. Si atterra in Norvegia, a Trondheim, in un aeroporto appoggiato ai bordi di un enorme fiordo. Da lì per raggiungere Åre c’è un’unica lunga strada, per lo più coperta di ghiaccio, la E14. Il Super G femminile è la prima gara dei Mondiali di sci alpino, oltre alla Vonn ci sono anche Mikaela Shiffrin e Sofia Goggia. La tribuna a fondo pista è quasi piena, l’aria che si respira è quella di una grande festa. Le ragazze scendono a una velocità folle, superano i 100 chilometri all’ora, qui tutti fanno il tifo per tutti.
Sofia Goggia sorridente dopo l’argento in Super G (Foto LaPresse)
Ovvio, ci sono applausi speciali per gli atleti svedesi, ci sono i fan club, le bandiere nazionali, gli striscioni per questa o quella sciatrice, ma a ogni arrivo tutti applaudono, non importa per chi si fa il tifo. Quando Lindsey Vonn è al cancelletto di partenza, indossa il pettorale numero 16. Prima di lei è scesa Mikaela Shiffrin, la più forte di tutte. È americana come Lindsey, vive uno di quei momenti di grazia che capitano solo ai migliori. Ha appena soffiato il primo posto a Sofia Goggia. “Soffiato” non è una scelta stilistica pigra per descrivere quanto successo, ma la parola che più rende l’idea di che cosa separa Shiffrin e Goggia in quel momento: 2 centesimi di secondo, l’equivalente di pochi centimetri su una pista di centinaia metri. Il traguardo di Sofia era stato salutato con un boato da tutti. Non si può non amare questa ragazza italiana, appena tornata da un infortunio, che manda baci sorridenti al pubblico che la applaude.
Quando Lindsey Vonn è al cancelletto di partenza, Goggia si è appena alzata dal piccolo “trono” in legno dove chi conduce la gara di solito siede, aspettando impotente che chi scende dopo di lei non faccia un tempo migliore. Tocca a Shiffrin sedersi al suo posto, maledetti 2 centesimi di secondo. Quando Lindsey Vonn finalmente parte, la tribuna ruggisce. La vediamo scendere sul maxischermo, la partenza è troppo in alto per un occhio nudo. Chissà che vista, da lassù. Åre è un piccolo paese adagiato sulle sponde di un enorme lago ghiacciato. Talmente ghiacciato che non solo ci si passa sopra con gli sci di fondo e le slitte, ma ci hanno fatto anche un circuito per provare auto nuove e gomme chiodate (in Svezia Pirelli, che è anche sponsor di questi Mondiali, testa le sue gomme invernali, e si capisce bene perché guardandosi attorno). Dalla partenza del Super G certamente si vede il grande lago immobile, le case rosse di Åre (ha meno di 2.000 abitanti), le montagne lunari di questo posto, così bianco da sembrare infinito, e se uno si sforza, laggiù a destra, si può intuire la Norvegia. Non guarda il paesaggio però, chi scende a quella velocità, pochi secondi per decidere una stagione, pochi centesimi tra la gloria e le statistiche che verranno dimenticate. Erano anni che non si vedeva così tanta neve in Svezia, mi ha raccontato il giorno prima Björn, l’autista che è venuto a prendermi all’aeroporto di Trondheim, mentre mi spiegava che il fiume nero che per molti chilometri correva accanto alla strada bianca che attraversavamo non era un fiume, ma un fiordo. Quando Lindsey Vonn affronta la prima porta quasi non si sente più il freddo – saranno quindici gradi sotto zero, la mattina presto erano ventidue. Vincerà il suo ultimo Super G? La gente in tribuna non smette di sorridere e fare rumore. È un Mondiale, sembra una festa di paese. La sera prima c’era stata la cerimonia d’apertura, la piazza centrale di Åre era piena di persone, donne, uomini, ragazzi, figli sulle spalle dei papà. Il presentatore indossava un cappellino con il ponpon, le nazioni in gara erano bandiere fatte sfilare in mano a bambini svedesi. Dimenticate le cerimonie d’apertura delle Olimpiadi, ecco. Era tutto così meravigliosamente strapaesano. Ci si scaldava con birra e vin brulè, che in Svezia però ha un altro nome. Tra due anni il Mondiale sarà a Cortina, che assieme a Milano in questi mesi se la gioca proprio con Åre e Stoccolma per l’assegnazione dei Giochi olimpici invernali del 2026.
Quando Lindsey Vonn sbaglia traiettoria non abbiamo neppure il tempo di rendercene conto. Prende una porta rossa in pieno viso, si sbilancia, cade in avanti, gli sci le si sganciano dagli scarponi e lei sbatte violenta contro la rete a bordo pista. La tribuna trattiene il fiato, poi esplode in un “ooooh” preoccupato. Sofia Goggia si mette le mani in faccia, urla “no!” guardando il maxischermo. Mikaela Shiffrin si gira e non vuole guardare, si copre gli occhi. Un gruppetto di tifosi della Vonn, vicino a dove sono io, smette di agitare lo striscione con la faccia della sciatrice americana, una di loro inizia a piangere. “Ma non si alza?”, ci si chiede guardando lo schermo. Non ci sono telecamere che riescono a inquadrarla, Lindsey Vonn è a terra immobile. Quando arriva la barella toboga sembra uno scherzo orrendo del destino. “Rompersi nell’ultima gara della specialità in cui è stata la più forte di sempre, che assurdità”, dice qualcuno. Quando Vonn si rialza da sola la tribuna ricomincia a respirare. Scende piano, gli occhi bassi, è salutata da un boato mentre passa inutilmente accanto al traguardo. Quando toglie gli sci zoppica. Nel gruppetto di giornalisti con cui sono io c’è anche Manuela Moelgg, ex azzurra di sci. Ci accompagnerà a sciare il giorno dopo sulle piste di Åre, il sorriso stampato in faccia di chi è contento di quello che fa (“Che meraviglia, che bellezza!”, dirà ogni volta che una curva della pista svelerà un dettaglio nuovo dell’orizzonte). Con lei parliamo della possibilità che Vonn non partecipi ad altre gare del Mondiale – non si sa ancora l’entità del suo infortunio, alla fine soltanto una botta forte e molti lividi – e si capisce quanto la testa nello sport sia fondamentale. Sapere che quella che stai facendo è l’ultima discesa della tua vita per vincere una medaglia scatena pensieri e insicurezze che non credevi di avere. Moelgg non si è mai rotta nulla, ha chiuso la carriera con tre podi. Avrebbe potuto continuare, le dice qualcuno. È andata bene così, dice lei. Il confine tra essere in controllo e perderlo è così sottile. Mentre Björn mi accompagnava verso Åre, il giorno prima, mi chiedevo come facesse a guidare così veloce su strade che in Italia sarebbero piene di auto in testacoda. Siete abituati alla neve, gli dico io. Sì ma io non la sopporto più, non vedo l’ora che sia primavera, mi risponde lui. Chissà com’è il lago di Åre in primavera. Mercoledì, tornando verso Trondheim, siamo rimasti fermi in coda perché un’autocisterna aveva fatto testacoda. Quando Lindsey Vonn ha annunciato di volere gareggiare ancora, venerdì e domenica, abbiamo capito che quando dopo la caduta di martedì ha twittato “sono Hulk” non scherzava. E tutti eravamo di nuovo pronti a fare il tifo per lei.
L'articolo è stato pubblicato sul Foglio Sportivo in edicola sabato 9 e domenica 10 febbraio. Qui l'edizione digitale