Beppe Marotta, amministratore delegato dell'Inter (foto LaPresse)

Se l'Inter vuole tornare grande deve juventinizzarsi un po'

Roberto Perrone

La gestione del caso Icardi segna un passo nuovo nella storia nerazzurra, dove i giocatori contavano sempre più di mister e società. Le mosse di Marotta

Uno spettro si aggira per Milano: la juventinizzazione dell’Inter. Temuta, ma da gran parte della tifoseria interista ormai sdoganata. Tutto è cominciato con l’arrivo in corso Vittorio Emanuele di Beppe Marotta che “non è mai stato juventino” (copyright Pavel Nedved) però è un dirigente di lungo corso e alla Juventus ha dato molto e altrettanto ha ricevuto, costruendo un modello di conduzione della società. Poi c’è stata la passeggiata di Antonio Conte. Non è stata come quella del leader (allora dell’opposizione) israeliano Sharon sulla spianata delle Moschee di Gerusalemme, il 28 settembre 2000, che diede il via alla Seconda Intifada. Però il filmato dell’allenatore che ha ripristinato il potere dello “juventinismo”, dopo la crisi post 2006, a spasso per il centro, ha provocato sentimenti misti di apprensione e ribellione. Perché se Beppe Marotta non è juventino, Antonio Conte lo è nel midollo e i due insieme garantirebbero la juventinizzazione dell’Inter. Tra l’altro non c’è stato il minimo dubbio. Non era lì per il Milan. La sede rossonera è più defilata. Poi è stato segnalato anche “l’interista” José Mourinho ed è sembrata quasi una compensazione dello “juventino” Antonio Conte a duecento metri dalla sede nerazzurra. Dello “Specialone” non abbiamo il filmato.

 

Tra di due, i sostenitori nerazzurri non avrebbero il benché minimo dubbio ma la percentuale non è così plebiscitaria come in passato.  Da una parte alberga il sospetto sul “cavallo di ritorno”. Nel calcio funziona fino a un certo punto, infatti gli esempi vincenti (Rocco al Milan, la prima volta, la seconda no; Lippi alla Juventus; Gasperini al Genoa) sono una rarità, normalmente prevale la crisi di rigetto. E poi perché per la prima volta, travolti da sensazioni di odio-amore per l’idea, moltissimi tifosi sognano di passare dalla “squadra di Wanda Nara” (Mario Sconcerti sul Corsera) e di tutti quelli che negli anni hanno zavorrato quella che Gianni Brera battezzò “la Beneamata” con i loro capricci, all’Inter. Punto.

 

Non è che a Torino non abbiamo i loro problemi. I mugugni di Dybala, l’incidente di Douglas Costa (di giorno, ma c’è chi ha sfasciato l’auto all’alba dopo notti non certo casa e chiesa) con viaggio a Parigi per la festa di Neymar che ha contrariato il club, la ribellione di Bonucci due anni fa, finito sullo sgabello in Champions e poi spedito un anno in esilio a Milano. Eccetera. Ma è la gestione dello stato di crisi a essere diverso. Prima di tutto, quando vinci è più facile sistemare le cose, ma quella di tenere le diatribe a bassa intensità è sempre stata una caratteristica di Madama. Quando c’è un caso Icardi, da loro, si tende, e quasi sempre si riesce, a restringere gli invitati al party. Il padre di Lautaro Martinez, la fidanzata di Candreva, Wanda Nara con il suo top boy, le sue trasmissioni tv, i suoi tweet, non sarebbero tollerati. Molti giocatori della Juventus hanno pubblicato un’autobiografia ma nessuno nessuno ha minacciato i suoi tifosi: “Porto cento criminali dall’Argentina che li ammazzano lì sul posto, poi vediamo”. Anche alla Juve frequentano locali e discoteche, anche se non si ricorda un nuovo acquisto, il più importante, tra l’altro, beccato nel privé a socializzare con Fabrizio Corona. Anche se non c’è niente di male, non aiuta. Quello che la società, ma ormai anche la stragrande dei tifosi nerazzurri non sopporta più è la mancanza del senso di appartenenza. Vorrebbero un’Inter simile alla Juventus nell’organizzazione, nella gestione delle risorse umane, nella solidità strutturale, nella centralità del club. Da un lato temono di juventinizzarsi troppo, dall’altra sono stanchi di navigare a vista, immolando gli allenatori e salvando sempre e comunque i giocatori.

 

Ecco, questo è il punto. Il fresco, nei tempi, ma bollente per i particolari caso di Mauro Icardi, degradato sul campo che rifiuta la convocazione per la partita di Europa League a Vienna, è emblematico di una tradizione nerazzurra in cui i giocatori sono centrali. Il caso di Icardi e di “Uonda” Nara, la sua debordante, in ogni senso, signora, ha mostrato il limite di un’idea che nell’Inter è sempre stata vincente sulle altre. L’amore smisurato per i giocatori. Si tratta del pensiero forte morattiano che risale ad Angelo ed è stato seguito anche da Massimo, cioè dai due presidenti a cui sono legati i cicli di una Grande Inter. Mauro Bellugi, storico stopper nerazzurro, ha raccontato: “Angelo Moratti ci trattava come figli, a Picchi regalò una Jaguar, a Corso un Mercedes Pagoda, a me diede le chiavi della sua casa in Sardegna per le vacanze”.

 

Massimo non ha regalato auto e case per le vacanze, almeno non ne abbiamo notizia, ma ha sempre fatto capire da che parte stava. A Verona, notte del 23 maggio 2000, dopo lo spareggio Champions Inter-Parma 3-1 con Roberto Baggio che gioca sulle nuvole e segna una doppietta, nell’antistadio Moratti afferma: “Che bello se se si potesse giocare solo con i grandi campioni, senza gli allenatori”. Qualche mese prima aveva esternato le sue perplessità su Marcello Lippi, fortemente voluto in un tentativo di juveninizzazione ante litteram: “Tratta male i giocatori”.

 

Quello a cui stiamo assistendo è qualcosa di nuovo. Non si era mai visto all’Inter, infatti, il primo tra i fuoriclasse “trattato così male”. Il tentativo in atto è storico e rivoluzionario e se andasse in porto si tratterebbe di un cambiamento epocale. Il superamento della prevalenza del giocatore su tutte le altre componenti societarie. Questo è un modo di vedere il calcio come un altro, anche affascinante, se vogliamo. Ma deve essere temperato da una conduzione forte della squadra. Non è un caso che i due grandi momenti dell’Inter, negli anni Sessanta e nel Terzo Millennio, siano coincisi con il comando di allenatori di carattere. Helenio Herrera allora, Roberto Mancini e, soprattutto, Josè Mourinho più recentemente. Il primo passo di Beppe Marotta sulla strada della juventinizzazione è stato quello di confermare Luciano Spalletti. L’allenatore si cambia solo se sei disperato e stai per retrocedere. La grande squadra rischia anche di stare fuori dall’Europa ma non offre alibi ai giocatori. I conti si fanno, con tutti, panchina e campo, a fine stagione. La mania, perché spesso di questo si tratta, dell’esonero non è una strategia vincente. La Juventus dal 1969 al 2009 non ha cacciato un allenatore (nel 1999 fu Lippi a mollare). Confermando il tecnico si dà un chiaro messaggio. L’altro aspetto riguarda l’interesse del club prevalente sul “particulare”. I giocatori, per quanto immensi, passano, il club resta. Magari la spietatezza genetica bianconera non sarebbe molto amata a Milano, ma il senso di marcia è quello. Quando Andrea Agnelli troncò il rapporto con Alex Del Piero l’insurrezione, poi annacquata dai successi, per l’addio al simbolo bianconero, sfociò nella richiesta di ritirare la maglia numero 10. La riposta fu: qui hanno giocato grandi numeri 10 e noi pensiamo che altri possano indossare quella maglia. Togli la fascia, dai la fascia. Quello che conta è la fascia non chi la mette al braccio. E’ juventinizzazione? E’ pragmatismo.