L'orizzonte di Nereo Rocco (oltre Trieste)

Quaranta anni fa moriva l'allenatore che regalò al calcio italiano il catenaccio, al Milan due scudetti, due Coppe dei Campioni e a tutti borbottii e un "vai mona", perché così era più semplice capirsi

Giovanni Battistuzzi

Davanti a quel mare, che poi è Golfo, aveva tutto il suo orizzonte: il faro con la lanterna da un lato con dietro la penisola di Muggia e poi la distesa dell'Istria, il vecchio porto dall'altro con dietro il Carso che scemava sino a farsi Prealpi, la diga davanti a interrompere quel blu verdastro dell'acqua. Non riusciva a star lontano da Trieste, "mi sòn de Cecco Beppe", ripeteva sempre. E così ci tornava appena riusciva. E ci riusciva sempre, di solito la domenica dopo la partita, al massimo il lunedì. Non riusciva a rimanerci però a Trieste, ché poi finiva sempre alla stessa maniera, con un "va in mona" borbottato a qualcuno e l'idea che quella città gli si stringesse attorno come una galera. Ci ritornava sempre comunque, ovunque fosse, sempre in macchina perché a Trieste si deve arrivare via terra, gustarsi la riviera, il suo panorama d'incanto, odorarne a finestrini abbassati il profumo. Ogni tanto ci portava gli amici. Una volta Gianni Rivera, "i me oci": Milano-Trieste a settanta all'ora fissi, in quarta. Quando il capitano del Milan provò a chiedergli, "ma non mette la quinta?", rispose indignato: "Ciò, mona, pensa ai fatti tuoi".

   

Per Nereo Rocco tutti erano mona. Ma non per cattiveria, per modo di dire, perché così era più semplice capirsi. E pure lui, ogni tanto, si dava del mona, ma sempre per semplicità. "Mi a Milàn son el comendatòr Nereo Rocco. A Trieste son quel mona de bechér". Almeno lì, a Trieste, Bechér, macellaio, lo è stato sino alla fine, sino al suo ultimo respiro, quello andato in scena quarant'anni fa, il 20 febbraio 1979.

 


Nereo Rocco (foto tratta da Wikipedia)


  

Bechér per discendenza: i suoi avevano una macelleria in centro. Bechér per praticità: suo nonno era un Roch (o Rock), viennese, cambiavalute finito nel porto dell'Impero per amore; suo padre Roch (o Rock) ci nacque, doveva diventare Rocchi per esigenze di italianizzazione fascista, divenne Rocco per errore di anagrafe. Tant'è, Rocco nessuno lo chiamò mai, solo Bechér, anche lui. Altrove era il Paròn, che in italiano suonerebbe padrone, ma che così perde tutto il non detto. Ed è un non detto di ruvidezza, asprezza, ma anche bonario rispetto e stima. Paròn lo diventò a Treviso, dove trovò una panchina su cui sedersi dopo essere stato cacciato dalla sua amata Triestina, costretto a lasciare per ragioni mai chiarite dopo un secondo e due ottavi posti in serie A. C'è chi dice per una questione di soldi, chi per ragioni politiche legate alla sua elezione in Consiglio comunale con la Democrazia cristiana, chi per aver detto a un pezzo grosso della dirigenza dell'Unione che commerciava tessuti: "Mona, lei la pensi a vénder straze" (lei pensi a vendere stracci). A Treviso rimase due anni e mezzo in serie B. Sulla panchina alabardata ci tornò subito dopo: il tempo di un altro battito di cuore, di altri litigi e di un nuovo esonero.

 

Dopo quella cacciata gli passò pure un po' la voglia di pallone: "Va in mona pure el balòn". Si rimise dietro al bancone della macelleria e viva l'A e po bon. Non fosse stato per Bruno Pollazzi che iniziò a chiamarlo al telefono un giorno sì e un giorno pure, anzi pure due tre volte al giorno, pur di farlo uscire da Trieste e portarlo a guidare il suo Padova, forse Nereo Rocco avrebbe finito lì con la panchina. O forse no. Ché certamente "un omo la parola el la tien" (un uomo rispetta la parola data), ma lui era pur sempre uomo di mare e di porto, soprattutto di calcio. Al pallone c'aveva giocato a lungo. Mezz'ala di fisico, di fiato e di piede, con "un sinistro che era una cannonata", parole dell'ex allenatore della Nazionale due volte Campione del mondo (1934 e 1938) Vittorio Pozzo, in questo caso giornalista.

 

E così finì che al presidente del Padova rispose che "se mi date la casa, più un tanto al mese e mi lasciate tornare a Trieste tut­te le settimane senza creare problemi, posso anche venire a tentare di salvare la barca. Però non prometto niente; per il futuro vedremo". Rimase otto anni.

 

A Padova furono all'inizio fischi e prese in giro, risultati così e così, ma buoni per conquistare una salvezza insperata, pochi gol presi, pochi fatti, gioco non pervenuto. In trasferta i biancoscudati le prendevano, in casa in qualche modo vincevano (Rocco subentrò a Pietro Rava alla 24esima partita del campionato di serie B del 1953/1954). Fu promozione l'anno dopo, ma sempre fischi e tifosi insoddisfatti. "Dico la verità: quando mi urlavano catenacciaro, mi fi­schiavano, mi coprivano di in­sulti accompagnati dagli im­mancabili sputi, avevo crisi di sconforto. Ma sempre i miei giocatori mi erano vicini inco­raggiandomi a perseverare", disse a Gianni Brera.

  

Andò un po' meglio con la serie A, ma più per intervenuta abitudine che per reali cambiamenti di gusto. "Fosse stato in un'altra squadra Rocco avrebbe avuto meno detrattori. Ma faceva calcio supermoderno in provincia e nessuno glielo perdonò", scrisse sulla Gazzetta Gioànn Brera fu Carlo, all'epoca direttore. E furono nuovi insulti. Al giornalista e all'allenatore. Il calcio moderno era il catenaccio, ossia, per farla breve, l'introduzione della difesa con il libero. Rocco non era il solo a usarlo, era il solo a dichiararlo. E lui borbottava: "Solo noi femo el catenacio, i altri fa calcio prudente!".

 

Ricordava Gipo Viani che ogni volta che toccava andare all'Appiani, lo stadio del Padova, "veniva male a tutti noi allenatori", perché "se andava benissimo si usciva con un punto, se andava bene con l'onore, se andava male con le ossa rotte". All'Appiani perderanno tutte le grandi del campionato, dalla Juventus di Charles, Boniperti e Sivori in giù.

 

Il Paròn finì per convincere i tifosi che così, anche se non spettacolare come quello giocato in altri stadi, il suo calcio era giusto. Per convincere i critici doveva essere anche vincente. Anche per questo decise di andarsene nella Milano casciavìt, quella di fede rossonera. Al Milan lo volle Gipo Viani, lo mise sotto contratto con una stretta di mano e un fiume di parole metà in veneto e metà in triestino. Con Gipo le cose andarono come potevano andare tra due teste dure: alti e bassi. Vinse uno scudetto e una Coppa dei Campioni in una Milano divisa dal tifo per due squadre che sono l'opposto. Opposte nel cromatismo, opposte per storia, opposte per caratteristiche e modo di giocare. Dove anche i due allenatori sono agli antipodi. Da una parte l'elegante e raffinato Helenio Herrera, mago di un calcio un po' ostriche e champagne, severo e distaccato con tutti, calciatori in primis, salutista sino all'eccesso. Dall'altra il Paròn, schietto e sanguigno, ostico all'apparenza ma di rara sensibilità con i suoi uomini, uomo da osteria, vino e cotechino, un po' come il suo calcio. Il Milan vince subito e l'argentino si danna, si arrabbia, perde. Rocco se ne va da Milano dopo l'ennesimo litigio con Viani e Herrera vince campionati, tre, e Coppe Campioni, due. Il Paròn torna dopo quattro stagioni al Torino e i rossoneri ritornano a esultare: scudetto, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale una dietro l'altra, poi tre Coppe Italia e due Coppe delle Coppe, così per gradire.

 


Helenio Herrera e Nereo Rocco (foto tratta da Wikipedia) 


 

Nel 1973 lo chiama Federico Fellini, lo porta a cena a Bologna e davanti a un piatto di tortellini e un fiasco di Lambrusco gli propone di recitare in "Amarcord", di interpretare il padre di Titta. Lui dice che c'avrebbe pensato. E ci pensa davvero, è quasi tentato di accettare perché il regista lo aveva colpito, ma si mettono di mezzo i suoi giocatori che gli fanno il verso, che lo chiamano mister Bogart. Va a finire che alza la cornetta del telefono e fa: "No, grassie sior Fellini, so' mia mona".

 

Mona mai il Paròn.

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