Nel sud Italia lo sport sta morendo? Indagine su un paese spaccato
Gli Azzurri giocano soltanto nelle città del nord, sotto Roma è impossibile ospitarli. Pochi investimenti, impianti da rifare e grandi eventi come il Giro che passano altrove. Idee per ripartire
Lo sport è per essenza una pausa dal mondo. Difficilmente chi lo pratica, chi lo commenta e chi lo segue collega vittorie e sconfitte alle strutture economiche, politiche e sociali. Anzi, quasi sempre la sua fruizione da spettatori è un carnevale liberatorio per evadere dalle costrizioni della realtà. Ci sono situazioni in cui però questo collegamento si impone con una forza necessaria inscritta nelle cose stesse. Accanto e oltre alle statistiche economiche, lo sport è infatti una chiave privilegiata per raccontare la disintegrazione in atto del nostro tessuto nazionale. In queste settimane molto si è dibattuto sul disallineamento fra aree del paese, sulla possibile disarticolazione territoriale conseguente alla richiesta di autonomia differenziata avanzata da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, su un nord sempre più integrato nella sfera d’influenza economica tedesca e un sud ormai abbandonato al suo triste destino economico e sociale. Lo sport non è ovviamente responsabile di questi processi. Li subisce, ma nel subirli li rivela, esponendoci a una contraddizione che va analizzata e discussa. La dimensione sportiva, nell’età moderna, ha sempre fatto tutt’uno con la nazione, e quindi la sua unità statuale: ne è stata un veicolo chiave della sua costruzione identitaria e sociale, come già comprese uno storico di rango come George Mosse. Attorno a questo principio ha strutturato gran parte del suo modo di esistere e funzionare, creando un’esaltazione retorica (fortunatamente pacifica) fatta di simboli e rituali: l’inno, il campionato nazionale, la coppa nazionale, la bandiera esibita nei festeggiamenti, la partecipazione orgogliosa e comunitaria alle vittorie. A questo legame l’Italia aggiunge un di più di simbolismo.
Solo il nostro infatti, tra i grandi paesi europei, celebra i vincitori e le vincitrici del massimo campionato nazionale con lo scudetto che effigia i colori della nostra bandiera, idea in origine dannunziana.
Partiamo da qui, dagli scudetti, per comprendere quanto profonda sia la trasformazione in atto da tempo nello sport italiano. Se prendiamo in esame i sei principali campionati maschili e femminili dei tre sport più praticati e seguiti nel nostro paese (calcio, basket, pallavolo) troviamo un totale di 86 squadre partecipanti, di cui solo dieci del sud (erano undici a inizio stagione, prima del recente fallimento della Dike Napoli nella serie A femminile di basket). Dieci su ottantasei significa qualcosa di ben preciso: il deserto. Un decennio fa, stagione 2008-09, erano il doppio. Addirittura nell’attuale serie A femminile di volley, sport in cui l’Italia vanta una delle più alte partecipazioni giovanili al mondo, non ci sono squadre sotto Firenze. Risalendo indietro col tempo, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, sud faceva invece rima con successi e scudetti: il Napoli maradoniano nel calcio maschile, il Trani di Carolina Morace in quello femminile, Caserta regina del basket maschile con gli “scugnizzi” Gentile ed Esposito, Priolo di quello femminile, senza dimenticare l’epopea di Matera nel volley femminile, quattro titoli nazionali e due Coppe dei Campioni. Un passato che appare quasi preistorico visto dalla prospettiva odierna, e che rimarca ancora di più il disallineamento territoriale in atto. Quasi senza accorgersene, e senza particolare consapevolezza dei suoi attori, lo sport italiano sta pian piano tornando al tempo che precedette la carta di Viareggio del 1926, la storica decisione con cui la Figc creò per la prima volta il campionato a girone unico, mettendo fine ai due raggruppamenti territoriali nord e sud, le cui squadre vincenti si affrontavano solo in finale. Domanda provocatoria, ma non troppo: alla luce di tutti i motivi suddetti, ha ancora senso utilizzare l’espressione “campioni d’Italia”? Non sarebbe meglio dire “campioni della linea gotica”? Ovviamente c’è uno stretto rapporto di dipendenza tra la desertificazione sportiva fin qui descritta e quella economica del nostro Mezzogiorno che ogni anno la Svimez fotografa con disarmante puntualità nei suoi rapporti. È soprattutto la presenza rarefatta di grandi gruppi aziendali, di investimenti esteri, del tessuto delle medie imprese esportatrici che, da sole o in consorzi, sorreggono più o meno ovunque lo sport di vertice italiano, soprattutto basket e volley, a spiegare il dato sopra riportato. A questo si aggiunge il fatto che le ex aziende a partecipazione statale, che ancora presentano un radicamento in diverse regioni del sud, in Italia non sono mai entrate direttamente nello sport a livello di club (con l’eccezione di Brindisi nel basket).
Solo 10 squadre sulle 86 dei principali campionati maschili e femminili di calcio, basket e volley arrivano dal meridione
La desertificazione sportiva si manifesta anche in altre forme. Per motivazioni logistiche (su tutte il rispetto degli standard impiantistici imposti dagli organismi sportivi internazionali, sempre più stringenti ed esigenti, soprattutto nel calcio), è ormai sempre più raro che le partite delle squadre nazionali dei tre sport prima citati possano essere ospitate al sud, anche quelle delle rappresentative giovanili. Italia-Finlandia si è giocata a Udine, Italia-Liechtenstein a Parma. La fase finale degli imminenti Europei Under 21 di calcio maschile si disputerà a Bologna, Cesena, San Marino, Reggio Emilia e Udine. La prossima amichevole pre-mondiale delle azzurre di Milena Bertolini? Di nuovo Reggio Emilia. L’elenco potrebbe allungarsi a dismisura. Dove ha staccato il pass per i Mondiali la nazionale di basket allenata da Meo Sacchetti qualche settimana fa? A Varese. Quella femminile lo scorso novembre, in questo caso per gli Europei? A La Spezia. Le tappe italiane della Volleyball Nations League che prossimamente vedranno impegnate le azzurre di Mazzanti? Conegliano e Perugia. I colleghi maschi? Milano.
Lo scrivente ricorda una mitica partita Italia-Croazia Under 21 che si giocò a Caltanissetta nel 1994, divenuta celebre perché gli azzurrini di Cesare Maldini scesero in campo con le maglie rosse del Nissa, la squadra cittadina, per via di una doppia topica delle due delegazioni nella scelta delle mute. Sarebbe pensabile oggi una Nazionale a Caltanissetta? Anche qui sembra preistoria. L’azzurro delle squadre nazionali non ha più cittadinanza al sud, anche lui si è rintanato sopra la linea gotica, con l’eccezione di Roma e di qualche sporadico caso isolato, e non per colpa di una precisa volontà dei dirigenti federali, ma per triste necessità. Non è una perdita indolore. Non è solo l’impossibilità per tante persone di assistere agli spettacoli dal vivo, di “toccare” la maglia azzurra, di vivere un coinvolgimento popolare memorabile, esperienza compensata solo in parte dalla tv. È anche la perdita di attività promozionali per la pratica sportiva, di opportunità educative collegate come gli incontri nelle scuole. Non dimentichiamo che i numeri della pratica sportiva al sud sono pressoché dimezzati rispetto a quelli del centro-nord. Le Nazionali poi fanno parte del tessuto civico che dovrebbe unire gli italiani, se non giocano ovunque quest’ultimo si slabbra e si sfibra.
C’è chi resiste: il Napoli, la Brindisi del basket, la Vibo Valentia del volley, la Battipaglia del basket femminile giovanile
Arriviamo al terzo punto della nostra riflessione. Il Giro d’Italia 2019 non prevede attraversamenti al Sud, fatta eccezione per un arrivo di tappa nello “Stato di Padre Pio”, ovvero a San Giovanni Rotondo. Le motivazioni ufficiali di questa scelta non sono state comunicate dagli organizzatori, ma è facile supporre la cattiva situazione della rete stradale, le connesse difficoltà logistiche, probabilmente anche le ridotte disponibilità economiche delle amministrazioni comunali per proporsi come sedi di partenza e arrivo delle tappe. Come si possa però chiamare Giro d’Italia un evento che amputa un terzo del suo territorio e delle sue strade è di difficile comprensione. C’è una ferita simbolica e storica in quest’amputazione. Sono stati i ciclisti, ancora prima dell’esperienza tragica delle trincee, a creare il sentimento di unità nazionale dal basso. Ne “L’avocatt in bicicletta” di Gianni Brera ci sono pagine magnifiche sui primi pionieri lombardi in avanscoperta sotto Roma agli albori del Novecento, personaggi salgariani, epos vero. “Il Giro parla tutti i dialetti d’Italia, e tutti li intende”: così si legge in uno dei libri di sport più belli mai scritti, quello che Filippo Timo ha dedicato nel 2010 al minuzioso racconto biografico di Fausto Coppi, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Parole per nulla retoriche, dato che una delle storie emotivamente più dense del libro è quella riferita al periodo casertano del Campionissimo, rientrato in Italia dal campo di prigionia inglese in Tunisia agli inizi del 1945, e assegnato al comando alleato di Caserta. Fu un appello pubblicato sulla Voce di Napoli, grazie all’interessamento attivo del calciatore partenopeo Umberto Busani, che gli permise di reperire una bici per riprendere gli allenamenti. E fu la generosità di un falegname di Somma Vesuviana, che donò a Coppi la propria bici da corsa in un tempo in cui il valore materiale anche degli oggetti minimi era altissimo, a rendere possibile tutto questo. L’orgoglio dei contadini locali della frazione Ercole di Caserta che omaggiavano il campione tortonese della loro frutta ha ancora tracce a settant’anni di distanza, se ogni anno nella stessa frazione il 2 gennaio si celebra una messa in suo ricordo. Infine il ritorno in bici da Caserta a Castellania dopo il 25 aprile, attraversando lui sì tutta l’Italia, anticipando in solitaria il Giro della ricostruzione dell’anno successivo.
Cosa può fare lo sport per contrastare questa disintegrazione?
Intanto ringraziare chi resiste, costretto a sforzi enormi per affrontare i “campionati della linea gotica”. Non c’è solo il Napoli. C’è Brindisi finalista nell’ultima coppa Italia di basket maschile. C’è la Tonno Callipo di Vibo Valentia nel volley maschile, con un presidente battagliero e vero eroe civile. C’è Battipaglia che due anni fa ha vinto uno scudetto tricolore nel basket femminile giovanile. C’è la Pink Bari che a breve parteciperà alle fasi finali del campionato Primavera di calcio femminile. Ovviamente la volontà incrollabile del mondo sportivo non può crearsi da sola i mezzi della prosperità, risolvendo i nodi che da tempo strozzano lo sviluppo economico del meridione. Qui torniamo alla passività dello sport rispetto al contesto che lo circonda da cui siamo partiti. Certo, ci sono delle strategie possibili. Ad esempio la logica della multiproprietà fatta propria da due presidenti molto simili, Claudio Lotito e Aurelio De Laurentiis, da sempre vista con circospezione per via dei potenziali conflitti d’interesse, si sta dimostrando sia a Salerno sia a Bari un’alternativa gestionale concreta ai fallimenti e ai disastri organizzativi. Probabilmente i tempi sono maturi anche per discutere di ipotesi di defiscalizzazione o di altre agevolazioni per le squadre di vertice del sud. C’è poi un altro tema epocale all’orizzonte. Dato che nel calcio e nel basket di club gli orizzonti principali, soprattutto dal punto di vista degli interessi economici, sono ormai sovranazionali, come potrà recitarvi un ruolo il sud, se già fatica ad avere una presenza in quelli nazionali? Un possibile declassamento nel declassamento.
La situazione legata all’impiantistica invece può e deve essere risolta. È un tema nazionale, che al sud raddoppia la sua importanza. Napoli deve avere uno stadio moderno all’altezza delle ambizioni europee della sua squadra, in grado anche di ospitare la Nazionale e altri grandi eventi. Lo stesso dicasi per Bari. Non è possibile inoltre che sempre Napoli non abbia un palasport decente (nemmeno le Universiadi hanno risolto questo problema), così come Palermo sia ancora in attesa da più di dieci anni di riaprire il suo. Serve un lavoro congiunto tra club, federazioni, leghe, enti locali, Credito Sportivo, Coni, governo e altre istituzioni. Serve, soprattutto, che sia avvertita come una missione davvero di interesse nazionale e strategico.