La gioia effimera di tifare Federer
Più lui vince, più noi rogeriani esultiamo con l’ansia di chi sa che sta per arrivare il giorno dell’addio
La gioia effimera mista ad ansia, che si rinnova a ogni ulteriore conquista del Divino. Più lui vince e continua a vincere, più noi devoti guardiamo con terrore al momento in cui Roger Federer deciderà di smettere. Potremmo definirlo “il paradosso di Roger”, anche se in verità staremmo descrivendo il nostro paradosso, quello dei rogeriani. Perché ovvio, nel frattempo, lui resta il più tranquillo di tutti, l’unico in grado di valutare con equidistanza gli accadimenti. Noi normali siamo troppo emotivi per goderceli sino in fondo. Al massimo ci riusciamo per qualche attimo fuggevole, durante una voleé bassa bloccata, una frustata liquida di dritto a sventaglio, o un passante di rovescio al volo da tre quarti campo in top-spin. Ma è un tempo piccolo, dopodiché torniamo a consumarci nel nostro lento logorio. Ogni suo trofeo, per noi adepti, assume le sembianze di un passo decisivo verso l’ineluttabile. La tragica e fatale necessità, la fine della bellezza sulla terra. Succederà, prima o poi, e quel frangente ci coglierà del tutto impreparati, nonostante ci abbiano spiegato con chiarezza che sarà così.
Le prime discussioni in merito risalgono addirittura al Roland Garros 2009. Era l’ultimo Slam che mancava alla collezione, non gli diedero manco il tempo di alzare il trofeo. Ora che hai vinto tutto, stai già pensando al momento in cui appenderai la racchetta al chiodo? Sorrise, per poi argomentare educato della sua grande passione per il tennis e di come, fisico permettendo, voleva procedere senza darsi scadenze.
E’ trascorso un decennio, sono arrivate due coppie di gemelli e cinque Slam ultratrentenni, ma la domanda resta più o meno la stessa, e la risposta pure. L’ultima occasione è stato il recente trionfo a Miami, nel nuovo stadio, contro l’americano John Isner. Una coppa che Roger aveva sollevato la prima volta nel 2005 battendo Nadal. In un torneo dove esordì nel 1999 e giocò la prima finale nel 2002, sconfitto da Andre Agassi. Nel duemiladue, contro Agassi, quello con gli scaldamuscoli fucsia, quello di Open. Sono trascorse ère, il mondo ha cambiato faccia e pure il tennis, ma Roger no. Salvo qualche piccolo aggiornamento di sistema, è lo stesso di allora, e continua a vincere battendo ragazzini che non erano manco nati quando lui già dispensava mirabilie, brufoli in faccia e Wilson alla mano. E’ accaduto in Florida e in numerose altre occasioni. La lista dei record legati alla sua longevità sarebbe troppo lunga. A puro titolo esemplificativo citiamo la storia di Wimbledon, che dal 1877 non aveva mai visto qualcuno ripetersi a distanza di 14 anni dalla prima volta. Non a caso, i Championships sono il suo scenario preferito, e forse il più adatto allo stile classico/moderno che lo contraddistingue. Del resto, Federer e Wimbledon hanno molto in comune, a partire dalla connaturata ritrosia al cambiamento.
Roger ha messo su famiglia molto presto, la moglie Mirka è il motivo principale della sua stupefacente longevità al massimo livello. Lui non manca mai di sottolinearne il ruolo fondamentale di mamma, moglie, manager e centro delle operazioni. Colei che lo esenta dall’occuparsi di altro che non sia giocare a tennis. Fino a dichiarare che se solo decidesse, lui la farebbe finita all’istante con valige e carovane in giro per il mondo. Ma tranquilli, non accadrà: la first lady è la prima sua tifosa e l’ultima al mondo a volerne sancire la dipartita agonistica. Quando arriverà quel momento – perché pare proprio che succederà, è giusto tenerlo a mente – sarà solo per raggiunti limiti di efficienza fisica e conseguente impossibilità di ulteriori Slam. Di sicuro non per scelte altrui. Tantomeno per il deteriorarsi di un tennis che negli anni è anzi cresciuto, in qualità e intensità.
Bello, bravo, forte, giusto, corretto, elegante, uomo, padre e marito esemplare. Nel racconto di Federer il rischio di cadere nell’agiografia è sempre molto forte. Va dunque citato anche qualche tratto di relativa debolezza, tra le pieghe di un curriculum leggendario. Roger appartiene alla specie umana, e in quanto umano ha dei difetti. Tra questi, la già citata pigrizia (ovvero ritrosia al cambiamento) e un pizzico di paura nei momenti cruciali di certi match. Impercettibili tremolii reconditi, che arrivavano contro gli avversari meno sudditi del suo carisma. Vengono subito in mente le sfide perse contro il suo miglior nemico Rafa, ma non solo quelle. Il ragionamento è più ampio, e il rogeriano puro è oltranzista fino all’autolesionismo. Sostiene che con un simile talento, con quel fisico e baciato in modo tanto evidente dal Dio del Tennis, Federer avrebbe potuto e dovuto vincere ancora di più. Sembra un assurdità, detta del più vincente nella storia, ma se riferita al suo periodo di massima vigoria fisica, quello prima dei trent’anni, è tesi plausibile.
Noi rogeriani siamo inclini alla sofferenza autoindotta, ma talvolta ci azzecchiamo. Roger negli anni ha scontato spesso il suo immobilismo tattico, la scelta non sempre felice degli allenatori e il cambio tardivo della racchetta. Partiamo da quest’ultima, e ricordiamoci che il giovanotto ha aspettato almeno tre (se non quattro) anni di troppo, prima di rottamare la sua antica compagna d’avventure. Fino al 2014 utilizzava un piatto corde da 90, che discendeva quasi immutato dai tempi di Stefan Edberg. Certo, quel telaio gli aveva fatto vincere l’inenarrabile e ormai era parte del suo DNA, ma se la tenne oltre ogni limite, per paura dell’ignoto e scarsa voglia di sperimentare. Nel frattempo gli altri si affidavano a materiali e formati più performanti. Guarda caso, appena Roger decise di adottare il nuovo attrezzo – più grande e reattivo – i colpi di inizio gioco migliorarono d’incanto. A partire dal servizio, la base di tutte le certezze, il cardine del gioco.
Sistemata la racchetta, per prolungare all’infinito, come sta accadendo, una carriera già mitologica, ci voleva una allenatore motivatore di livello. Roba che al primo Roger non era servita mai. Federer 2003-2009 era un padreterno cui riuscivano magie una via l’altra. Poteva bellamente fregarsene delle strategie, tanto era unto dal Signore. Gli bastava lasciar andare il braccio e le cose accadevano da sole, per grazia ricevuta. Il coach rivestiva importanza solo al momento di prenotare il campo per l’allenamento. Poi, verso la fine degli anni Zero, arrivarono i primi acciacchi. A Nadal, che c’era sempre stato, si aggiunsero pian piano Djokovic, Murray, poi Del Potro e Cilic, solo per citarne alcuni. Le vittorie si facevano più rare, i nuovi gli avevano preso le misure. Occorreva assoldare qualcuno che lo sapesse rivitalizzare e lo convincere ad ammodernarsi. Si cominciò proprio dal già citato Stefan Edberg, suo idolo adolescenziale, che provò a riportarlo più spesso a rete, come agli inizi di carriera. La cosa ebbe un eccellente effetto estetico, ma Slam zero, e i rogeriani volevano di più. Non osavano dirlo ma sognavano nel miracolo di vincere ancora un Major. L’ultimo era datato Wimbledon 2012.
Ci vuole un colpo di genio, chi meglio di Roger. Che infatti convoca un suo ex collega, grande conoscitore del gioco e ottimo amico. La scelta, quasi banale, poi rivelatasi illuminata, ricade su Ivan Ljubicic. L’ex numero 3 del mondo smuove gli ingranaggi giusti e convince il suo assistito a fare la rivoluzione. No scambi lunghi, no rovescio tagliato e difensivo, sì intraprendenza e fantasia. Tempo qualche mese e scopriamo il Federer che avremmo sempre voluto, negli anni in cui si era fatto troppo attendista. Fino alla madre di tutte le partite: la finale dell’Australian Open 2017. Immaginare RF, al rientro dopo sei mesi, che batte Nadal in 5 set, recuperando da un break sotto nel quinto, era superiore alla più fervida immaginazione di ogni rogeriano. Accadde, in un match meraviglioso, e fu un momento spartiacque che fece capire al mondo quanto Federer fosse ancora vivo. Il momento più importante della sua seconda esistenza. Contro un avversario, anzi L’AVVERSARIO, superato a base di rovesci in top-spin, scambi brevi e piedi sulla linea di fondo. Tutti scoprirono la sapiente mano di Ljubicic, sceneggiatore e regista della metamorfosi. Quel fluido magico, quella ulteriore spinta verso l’immortalità si prolunga fino ai giorni nostri.
Al curriculum si sono poi aggiunti altri due Slam, è stata superata la simbolica cifra dei cento tornei vinti in carriera, e ormai in vista dei 38 anni il ragazzo tornerà a esibirsi sulla terra battuta, cosa che non capita da ormai tre stagioni. Sostiene che lo farà perché ha voglia di divertirsi. Sembra una follia, potrebbe consumare energie preziose in vista nella stagione erbosa, quella storicamente più adatta al tennis di Federer.
Ci risiamo, i rogeriani che vanno in ansia e Roger che resta il più tranquillo di tutti, in un eterno ritorno. Siamo destinati ancora a provare quell’indefinibile stato di gioia effimera mista ad ansia che si rinnova a ogni manifestazione del Divino. Lui imperterrito continua a giocare, noi devoti guardiamo con terrore al momento in cui Roger Federer deciderà di smettere. Nel frattempo, continueremo a gioire solo per qualche attimo fuggevole.