Perché va ripensato l'intero sistema degli arbitri italiani
Ormai gli arbitri italiani non sono più in grado di reggere la pressione di uno stadio stracolmo di tifosi che puntano gli occhi su quel monitor
Che cosa passa nella testa di un arbitro per non concedere un calcio di rigore come quello negato al Milan nella sfida di sabato scorso contro la Juventus? Quali sono i suoi ragionamenti davanti al monitor, mentre parla con il collega chiuso nello stanzino adibito a sala Var? Solo rispondendo a questi due interrogativi si riuscirà a salvare l’esperimento tecnologico che in questa stagione proprio non va. Escludendo le motivazioni da bar sport, ché nessun arbitro intende macchiarsi il curriculum e rovinarsi la carriera per un rigore non dato in un big match di serie A, la risposta più banale è che la pressione di certi incontri è soverchiante. E fa sbagliare. Ecco il punto decisivo: gli arbitri italiani non sono più in grado di reggere la pressione di uno stadio stracolmo di tifosi che puntano gli occhi su quel monitor, attendendo la decisione definitiva. Non sono più i tempi dei fischietti con gli huevos, dei Braschi che armati di doppio polsino si facevano rispettare con la forza di uno sguardo. Senza urlare o tenere sermoni in mezzo al campo, bastava un’occhiataccia per mettere a posto i calciatori. Oggi in campo ci vanno ragazzi spauriti, senza una vera gavetta che li abbia preparati per quel tipo di partite.
Michael Fabbri, l’arbitro di Juventus-Milan, non era un parvenu: dallo scorso gennaio è internazionale, pur senza avere mai diretto alcun big match degno di tale nome. Infatti, prima dell’incontro, veniva lodato Rizzoli perché “testava Fabbri” in una sfida così delicata. E’ chiaro che c’è qualcosa che non va. Fino a qualche anno fa – non venti, solo cinque-sei – gli aspiranti ai galloni da internazionale erano così tanti che restavano fuori fischietti del calibro di Emidio Morganti (uno che avrebbe potuto arbitrare una gara di Champions League a occhi chiusi) e Christian Brighi. Prima di loro, un fuoriclasse quale era Gennaro Borriello restò confinato alle classiche del campionato italiano. Oggi si va a scegliere quel poco che il convento offre, solo per mantenere le posizioni in sede Uefa e Fifa (leggasi: posti). Veniamo da anni di scelte sbagliate – la divisione dei gruppi arbitrali tra serie A e B è stata devastante, si è persa un’intera generazione di fischietti – e da una crisi di sistema che non può essere mascherata dall’ausilio tecnologico. Scrivevamo qui tempo fa che anzi, se un arbitro non è di livello, la vivisezione degli episodi contestati al monitor non avrebbe fatto altro che rendere ancora più palese l’inadeguatezza. Quindici giorni fa un’azione è stata rivista per otto minuti, il che è intollerabile. Nicola Rizzoli fa quel che può, giustamente dice che gli arbitri devono crescere – dovrebbero farlo prima, ma come detto non è possibile – e che necessariamente la loro consacrazione deve passare anche da errori tremendi come quelli di Fabbri in Juventus-Milan e di Abisso in Fiorentina-Inter. Anche perché di loro non si potrà fare a meno: sono il futuro, piaccia o no.
Chi oggi fa lo schizzinoso davanti agli atteggiamenti da duro di Orsato, allo stile di Rocchi, ai fischi di Banti e Mazzoleni, sappia che tempo due anni e questi in campo non ci andranno in più. Ma al loro posto non torneranno i Collina, i Rosetti, i Rizzoli: ci saranno i Fabbri, gli Abisso, i Mariani. E le partitissime dovranno passare per forza da questi. E’ meglio capirlo prima che sia troppo tardi, per prevenire inchieste giornalistiche sullo sfacelo della classe arbitrale italiana, scavando nel torbido alla ricerca di complotti e piani diabolici. Va ripensato l’intero sistema, che per troppi anni si è cullato sui propri allori, sicuro (a ragione) di essere il migliore del mondo. Ma anche il mondo va avanti, e se nell’Ottocento la lampada a petrolio era il top della modernità, qualche anno dopo nelle case è arrivata l’elettricità. L’Associazione italiana arbitri se lo ricordi, e provveda.