L'orgoglio della Triestina, ai confini del calcio italiano
Una città simbolo e una storia fatta di grandi campioni. La squadra di Granoche punta la serie B
Il calcio a Trieste non è mai stata una questione banale. A cominciare da quel campionato 1947-48, quando la squadra viene ripescata dopo la disastrosa retrocessione dell'anno precedente. Come la città, anche il pallone viveva sotto la cappa della questione territoriale sorta con la Jugoslavia al termine della Seconda guerra mondiale, al punto che la Triestina giocava in Italia e l'Amatori Ponziana nel campionato della vicina repubblica titina. Ufficialmente la motivazione del ripescaggio viene giustificata con le fatiche logistiche patite dalla squadra, obbligata dall'autorità anglo-americana a disputare le gare in casa a Udine e finita all'ultimo posto. In realtà era una questione totalmente patriottica: Trieste era il simbolo dell'Italia che non voleva cedere al confine orientale, una squadra in serie A era una questione di prestigio e una cassa di risonanza per l'orgoglio.
Nel 1947-48 si disputa così l'unico campionato del girone unico a 21 squadre e la Triestina fa la sua ottima figura. Trionfa il Grande Torino, con venti punti di vantaggio sulle seconde, Milan, Juventus e la sorprendente squadra alabardata. Il merito è di un figlio della città come Nereo Rocco, che da Trieste comincia un'avventura in panchina che lo avrebbe portato con il Milan a vincere la prima Coppa dei Campioni di un'italiana (1963). Al centro della difesa rossonera c'era Cesare Maldini, altro triestino, che non solo avrebbe messo al mondo uno dei difensori più forti della storia (Paolo) ma avrebbe tirato su generazioni di azzurri, campioni con l'Under 21 e poi consegnati alla Nazionale maggiore. Una Nazionale che a un altro triestino (Furio Valcareggi) deve un campionato d'Europa (1968) e un inaspettato secondo posto al Mondiale, dietro il formidabile Brasile non solo di Pelè (1970).
Poche battute per far capire che cosa sia stato il pallone a Trieste. Una città che può vantare campioni del mondo come Gino Colaussi - nato Colausig, con cognome modificato per esigenze autarchiche dal regime fascista - e Piero Pasinati (in quel 1938 c'era anche Bruno Chizzo, ma non scese mai in campo), calciatori entrati nella leggenda come Giuseppe Grezar, morto nel disastro di Superga, o giocatori solidi come Fabio Cudicini, il “Ragno nero” del Milan riveriano. Nel 2019 la Triestina festeggia un secolo di vita e insegue una nuova esistenza, dopo aver lasciato la serie A nel 1959 e dopo essere passata attraverso la consueta serie di fallimenti e rinascite che caratterizza il nostro calcio.
Il nuovo-vecchio simbolo è Paolo Granoche, tornato la scorsa estate nella società che lo aveva portato in Italia in un 2007 ormai lontanissimo. Uruguaiano di Montevideo, nasce e cresce come centravanti, nel mito di Gabriel Batistuta. Si mette in evidenza in Messico: gol e prima convocazione con la Nazionale nel 2005, a 22 anni. Prima e ultima, visto che si cambia ct (arriva Oscar Washington Tabarez) e che si presenta una generazione fenomenale di attaccanti: da Diego Forlan, a Luis Suarez e a Edinson Cavani. Non aiuta neppure il fatto di giocare in serie B, categoria in cui Granoche si trova peraltro a completo agio. Se in serie A fatica a trovare il gol tra Chievo e Verona, in B è tutt'altra cosa. Con 98 reti, è lo straniero che ha segnato di più nella storia del torneo. E avrebbero potuto essere 100 se nel 2016-17, tra marzo e maggio, non gli avessero sottratto due gol validissimi, con palla che varca la linea e arbitro (con relativo assistente) che non se ne accorge: prima contro il Brescia e poi contro il Frosinone. Granoche è allo Spezia, da cui si separa per tornare a Trieste: “Una scelta di cuore” la definisce. Qui lo avevano soprannominato El Diablo, perché arrivava dal Toluca, noto in Messico come i “Diavoli Rossi”, qui avrebbe voluto regalare la promozione dalla C1 prima di congedarsi dal calcio, alla soglia dei 36 anni. I gol sono giunti (16, di cui otto con rigori che calcia magistralmente). Il problema è stato aver trovato sulla propria strada un Pordenone che, a quattro giornate dalla fine del campionato, ha un piede e mezzo in serie B. Resta l'alternativa dei playoff, lunga e impervia, per provare a onorare un debito d'onore con la città. E lasciare un segno nell'anno più significativo della Triestina.