Se il calcio fosse una metafora, il calcio italiano è la metafora della costi-benefici
Dieci anni dall’ultima coppa, decenni dall’ultima rivoluzione. Perché il gioco delle squadre in Italia non evolve, anzi si è involuto
Poi è uscito anche Pep Guardiola, per due partite mal giocate e un colpo “da pallamano”, eppure tutti spergiurano che il suo City è il miglior calcio in circolazione.
Il dibattito sul perché e il percome lo squadrone di Allegri programmato per vincere la Champions abbia fallito ancora, lo lasciamo agli specialisti. Ma se questa fosse un’analisi del Fmi sul perché un intero sistema-paese è fermo ai dati di crescita di vent’anni fa, si potrebbero citare i famosi “indicatori”. L’ultima coppa dalle grandi orecchie, un club italiano l’ha sollevata nel 2010. Ma fu la luminosa meteora di un Filosofo solo al comando. L’ultima figlia di un qualcosa di simile a un “ciclo” è del Milan, 2007, dodici anni fa. Per trovare un’Europa League si torna a Parma 1999, epoca pre Pizzarotti. C’è il Mondiale 2006, sì: tredici anni. L’unico Europeo è del 1968, e forse solo Ratzinger saprebbe a chi dare la colpa. Andrea Agnelli ha fatto bene a presentarsi in tv a botta calda per sottolineare che il club ha fatto un balzo in avanti enorme nel ranking internazionale. Vero, ma è anche l’unico caso in un paese in cui gli altri club, se riescono, galleggiano sul filo del fairplay finanziario.
Il problema vero, ci fosse una Ocse per il calcio, è che quello italiano non evolve da vent’anni, anzi si è involuto. Il Milan del 2007 era il pronipote, imbastardito, dell’ultima rivoluzione di sistema, il berlusconismo-sacchismo. Poi, nulla. L’indicatore della proprietà degli stadi? Solo Juventus e Atalanta. Le “cantere”? Non esistono. Al massimo ci sono i vivai: più tradizionali, meno programmati. Un sistema “pubblico” di scuole calcio come in Germania o Belgio non è mai nato. I giovani non giocano, al massimo un paio alla volta. Nessuno in Italia metterebbe in campo sei o otto giovani assieme. Non è che il calcio italiano sia poco “allenante”, manco quello olandese lo è: è che non viene insegnato. Così per produrre calcio si comprano materie prime all’estero, anzi semilavorati già pronti e dunque costosi. Ma non quelli di prima scelta, a parte CR7, perché costano appunto troppo: solo giocatori di fascia media o in là con gli anni.
Si corre poco nel calcio italiano, è un’evidenza. Più che altro, si corre all’indietro e in modo conservativo. Ci si copre molto, si “addormenta il gioco”, c’è specializzazione ma non duttilità. Negli ultimi quindici anni all’estero hanno inventato il tiki-taka e il Gegenpressing, l’evoluzione dinamica del tiki-taka, la “regola dei sei secondi” per aggredire il recupero palla e quella diavoleria ancora senza nome dell’Ajax di Ten Hag, che forse non è la nuova Arancia meccanica ma ci assomiglia. In Italia, il 4-3-3 è considerato ancora uno schema arrischiato. Il sistema-paese calcio è fermo alla sua ultima evoluzione di decenni fa, in questa stagnazione se la cavano solo i grandi club con le spalle finanziarie larghe, ma quando poi la sfida si fa globale accusano il gap di know-how. Il calcio-Italia non ha un modello di sviluppo, non ha il coraggio di innovare, di selezionare dal basso le eccellenze e investirci. Si gioca di conservazione, più che in difesa in stagnazione, confidando nel contropiede del dumping. Se il calcio fosse una metafora, il calcio italiano sarebbe la metafora della costi-benefici.