Addio a Stevie Chalmers, leader del Celtic che faceva sognare
Guida dei Lisbon Lions, se ne è andato il giocatore che aveva contribuito al mito della squadra scozzese che aveva dominato anche in Europa
C’è un aneddoto curioso - ma pure ricco di significato - che affiora dalla gioventù di Stevie Chalmers, l’ex campione del Celtic degli anni Sessanta morto ieri. Aveva appena vent’anni quando, nel ’55, si ammalò di meningite tubercolare, un male che poteva essergli fatale e che per sei mesi lo costrinse in ospedale: a lottare con lui c'era il dottor Peter McKenzie che seguì una cura innovativa per tentare di salvare quel giovane calciatore. Furono settimane terribili, a tu per tu con una malattia che all’epoca non dava speranze di vita: "Quando nessuno mi guardava, buttavo le mie gambe di là del letto per tentare di muoverle", racconterà il calciatore. "Mi piace credere che la mia buona salute e la forma fisica mi abbiano aiutato". Si salvò Chalmers, e McKenzie promuoverà la sua terapia in giro per il mondo - nessun altro paziente era riuscito a uscire vivo dall’ospedale, all’epoca, dopo avere contratto quella meningite. Il medico, che era tifosissimo dei Rangers, non sapeva però che aveva salvato la vita a quello che diventerà uno dei migliori calciatori di sempre. Chalmers, 261 partite coi Bhoys e 155 reti in 12 anni, oltre a essere un fuoriclasse era pure un gentleman, e non romperà mai i rapporti col luminare, nonostante lo sport li volesse contro. "Il mio successo è il suo successo", gli scriverà anni dopo, in seguito all’esordio con gol nel suo primo Old Firm, ovvero il tanto combattuto derby della città di Glasgow.
Chalmers sale in cielo esattamente una settimana dopo il suo capitano Billy McNeill. Bomber il primo, leader il secondo. Entrambi nel Celtic più forte di sempre, quello che i tifosi dell’Inter più stagionati ricorderanno per la Coppa Campioni persa dai nerazzurri nel ’67 a Lisbona. I meneghini arrivavano da tre edizioni in cui avevano dominato l’Europa, con due successi (’64 e ’65) e una semifinale (nel ’66, persa col Real poi campione) sotto il "mago" Herrera. Insomma, pareva certo che quegli 11 scozzesi nati tutti a poche miglia dallo stadio di Parkhead dovessero soccombere, come per altro il gol precoce di Mazzola sembrava confermare. Poi la partita cambiò, i biancoverdi pareggiarono con Gemmell e a 7 minuti dal termine Chalmers si trovò sulla traiettoria del tiro di Bobby Murdoch per insaccare il gol più facile, ma pure il più prezioso, della sua carriera.
Nacquero lì i Lisbon Lions, un marchio che sa di mito, tanto da diventare il nome di una delle gradinate dello stadio del Celtic. Un mito come le maglie biancoverdi intonse, tanto belle da non volere numeri sulla schiena ma solo sui pantaloncini, perché le hoops - così diceva il presidente dell’epoca, Desmond White - "non si prestano ai numeri". Un mito che sa perfino di beffa per il pallone britannico, che aveva sì inventato il football ma fu costretto a vedere una squadra scozzese, per di più dall’animo cattolico e irlandese, essere la prima rappresentante dell’isola a vincere un trofeo continentale. Un mito come il treble, un concetto che in Italia conosciamo come triplete, nostalgico tuffo di gloria per i tifosi dell’Inter e ossessione per gli juventini. Gli scozzesi c’erano arrivati già nel ’67, vincendo per primi in Europa campionato, Coppa di lega e Coppa Campioni in un’unica stagione, scrivendo - forse senza sapere quale peso avrebbe avuto tale en plein - un pezzo della storia del pallone.
Il dramma è che il tempo corre più dell’imprendibile Jimmy Johnstone, e di anno in anno i ragazzi che fecero l’impresa del ’67 muoiono. Per i tifosi del Celtic, i Lisbon Lions restano un passato sempre aureo ma pure malinconico, lontano da un oggi ben diverso, che - anche a causa del fallimento dei Rangers del 2012, con successiva retrocessione in quarta serie - vede i Bhoys dominare facilmente il campionato, ma poi soccombere alla prova europea. I britannici hanno un rapporto con gli eroi dei propri club che è sempre profondo: silenzio e sacralità, come di fronte a un nonno che racconta una guerra sportiva che ognuno di noi avrebbe voluto combattere. E quando sabato scorso, nel match contro il Kilmarnock, il Celtic si è fermato per ricordare Billy McNeill, l’atmosfera allo stadio è stata unica.
"Hail Cesar", il saluto del popolo bianconero al suo capitano, in campo per 486 partite in 18 anni coi biancoverdi, per poi tornare da allenatore a Parkhead. Pensare che quel soprannome, “Cesar”, nacque grazie a un film: McNeill era andato al cinema con alcuni compagni di squadra per vedere "Colpo Grosso", con Frank Sinatra e Cesar Romero, che nella pellicola recita la parte del conducente d’auto. McNeill, l’unico del gruppo ad avere patente e macchina, si trovò addosso il nome di quell’attore, che lo ha accompagnato nei suoi exploit in biancoverde e ha dato il nome alla sua terza e ultima autobiografia (devi averne di cose da raccontare in tanti anni di Celtic). "Vincere potrebbe essere stato per la Scozia, ma sicuramente non per la Gran Bretagna... È stato per il Celtic", furono le sue parole sul successo di Lisbona, giusto per dare il senso - anche sociale e politico - a una vittoria che va più in là di quel trofeo che il capitano sollevò al cielo.
Tratti e cartoline di un calcio che in Scozia non c’è più, terra che col football ha sempre avuto un rapporto tutto suo: una nazionale da poche gioie, due club che si odiano ma che si tengono in piedi a vicenda, una marea di altre squadre "piccole" ma ruspanti e una teoria di straordinari allenatori quasi inspiegabile. Ci sarà un motivo se certi maestri del pallone come Ferguson, Dalglish, Shankly e Busby sono cresciuti a nord del Vallo di Adriano? Jock Stein, il manager di quel Celtic, era uno di loro. Aria burbera e bel calcio, fango e velocità. Era andato dietro al pallone per fuggire da una vita nelle miniere di carbone, come toccava a tutti gli uomini del suo paese, nel Lanarkshire. Coi Bhoys fu giocatore, allenatore delle riserve e poi tecnico della prima squadra. Non lo volevano perché sarebbe stato Scrisse la storia diventando il primo manager protestante della squadra cattolica di Glasgow, e portandola sul tetto d’Europa.