Gli immacolati
Le apparizioni di Lello Ferrara, il ciclista
Napoletano di periferia, nove anni da professionista fra il 2001 e il 2010, e quel centimetro che ha fatto rimanere zero il numero di successi in carriera
Giro del Veneto 2006. Duecento chilometri da Padova, la culla del ciclismo italiano, a Thiene. Centoquaranta al via, cinquanta all’arrivo. Davanti, un gruppetto. L’ultima salita, a fare selezione. L’ultima discesa, a fare paura. Poi la volata. “Ai 500 metri scatta Stefano Marinangeli. Indecisione. Attesa. Incertezza. Ai 300 scatta Rinaldo Nocentini. E io dietro di lui. Uno sprint eterno. Lo rimonto, lo affianco, lo supero. Testa a testa, spalla a spalla, gomito a gomito. Sul traguardo piombiamo insieme. Non sono abituato a giocarmela per il primo posto. Mi ricordo di dare il colpo di reni, ma proprio per la disabitudine, lo do quando siamo già arrivati. Troppo tardi. Primo lui, secondo io. Se fossimo al sud, andrei dai giudici per un ricorso, un appello, una preghiera, un’implorazione, un atto di pietà e misericordia, sapendo che al sud non c’è la macchina del photofinish, e se c’è, non funziona, e se funziona, non funziona bene. Ma siamo al nord, e il photofinish c’è, e ha celebrato Nocentini, decretato la sua vittoria e certificato la mia sconfitta, per un solo centimetro. Mai così vicino, io, al primo posto. Ma forse, a ripensarci, bene così: almeno per la latitudine, meglio che a vincere il Giro del Veneto fosse un toscano che non un terrone come me”.
Lello Ferrara, nove anni da professionista fra il 2001 e il 2010, zero vittorie: “Napoletano di periferia, da San Pietro a Patierno, un quartiere che confina con Secondigliano, San Carlo all’Arena e Poggioreale dove ci sta il carcere, e con i comuni di Casoria e Casavatore, che solo i nomi fanno venire i brividi. Lì si sentivano gli spari, come nel Far West. Lì sopravvivere è una necessità e può diventare un’arte. Io sopravvissi anche grazie alla bicicletta, però per fare il corridore dovetti emigrare al nord, in Veneto. L’ultimo anno da dilettante, il 2000, fui una rivelazione, perfino a me stesso, di cui ero il più grande appassionato, tifoso e sostenitore. Vinsi due tappe e il Giro dei dilettanti, più altre sette corse, totale dieci”. Invece, da professionista, zero: “Secondo in quel Giro del Veneto e poi a Gippingen, a Norimberga, a una tappa del Bayern Rundfahrt, terzo al Brixia Tour conquistato da uno che sarebbe diventato campione del mondo, Cadel Evans, terzo anche a un Trofeo Matteotti, una Tre Valli Varesine, una Coppa Placci e un Giro di Romagna. Insomma, trovavo sempre qualcuno che quel giorno andasse più forte di me. Onore al merito, loro, quando erano puliti. E quando non lo erano, coglione io”.
Strada facendo, Lello si accorse di non avere le stimmate dei campioni, né la stoffa dei vincenti: “Gregario. Aiutavo come potevo, in bici e a tavola, in salita e in camera, proteggevo dal vento e raccontavo barzellette. Tiravo finché potevo, poi lottavo per arrivare, anche ultimo, purché nel tempo massimo, ma con onestà e orgoglio. Certe volte ero così stanco da avere le visioni, mi appariva la madonna non solo sulle montagne ma anche in pianura, e ne ho viste di tutti i colori, anche nere. Alla Vuelta, sull’Angliru, ho visto addirittura dio in persona. Ma non sempre bastava. Al Tour de France del 2003 ero lanterna rossa, l’equivalente della maglia nera, cioè ultimo in classifica. La sedicesima tappa, pirenaica, duecento chilometri impestati di colli spietati e di asfalto bollente, da Pau a Bayonne, fu vinta da Tyler Hamilton. Aveva una clavicola rotta, nessuno di noi poteva capire come ce l’avesse fatta, anni dopo fu lui a confessare come riuscì, ma pazienza. Quel giorno stavo male, ero prosciugato, esaurito, finito, come ultimo in classifica avevo addosso una moto della tv, cercavo di mandarla via per potermi attaccare a un’altra moto o incollarmi a una borraccia, invece niente, così mollai e salii su una macchina”.
Chiuso con il ciclismo, Ferrara è poi salito su un camion: “Da camionista. Adesso faccio un Giro d’Italia alla settimana, trentamila chilometri al mese. Del mio passato da corridore non ho più nulla, venduto tutto per bisogno di soldi. Il ciclismo lo seguo per radio, su Internet e Instagram, e spero di non incontrarlo sulla strada, altrimenti mi blocca il lavoro. La bici era libertà e spensieratezza, il camion lavoro e orari. La bici era gente e vita all’aperto, il camion solitudine e vita al chiuso. La bici era un sogno pulito: se fossi sceso a compromessi, adesso magari non sarei qui, o adesso magari non sarei più qui”.