Un gioco da ragazze
Dopo anni di anonimato, dilettantismo e sorrisini, il calcio femminile sta conquistando tifosi e bambine che vogliono diventare calciatrici. “Ma basta paragoni con i maschi”. Parla Katia Serra
Umiliate, offese e ancora in piedi. Per molti anni le donne che giocavano a pallone hanno rappresentato un’anomalia, un problema sottinteso, qualcosa per cui era lecito scandalizzarsi; l’idea di fondo era che ci fosse qualcosa che non andava in una ragazzina se preferiva il calcio alla pallavolo, al tennis o alla danza. La reazione più generosa con cui osservare le calciatrici era l’indifferenza, l’alzata di spalle. Di prenderle sul serio non se ne parlava nemmeno. In generale, di loro si rideva molto, senza motivo e soprattutto senza giustificazioni. Qualcuno le definì handicappate (Carlo Tavecchio, candidato alla presidenza Figc, 5 maggio 2014), qualcun altro “quattro lesbiche” che non meritavano soldi (Felice Belloli, presidente della Lega Nazionale Dilettanti, 5 marzo 2015). Non tutto si perdona e si dimentica; dopo le frasi di Belloli le giocatrici del Brescia, dopo aver vinto la Coppa Italia, decisero di non farsi premiare dai dirigenti della Lnd, la loro Lega. Ma la rabbia e l’orgoglio non bastavano più: le calciatrici volevano garanzie e tutele oltre che rispetto, erano pronte a scioperare, a non scendere più in campo finché non avessero ottenuto qualche risposta. Le conseguenze di Tavecchio, suo malgrado, intanto però stavano cominciando a farsi sentire: messaggi di affetto, braccia conserte e pugni chiusi, manifestazioni di stima, endorsement convinti e di facciata, tanto bla bla bla istituzionale e finalmente una proposta di legge presentata il 6 novembre 2014 dalla deputata del Partito democratico Laura Coccia che chiedeva “l’applicazione del principio di parità tra i sessi nel settore sportivo professionistico”.
Katia Serra nel 2003 con la maglia della Enterprise Lazio (foto LaPresse)
Al momento la proposta giace in Parlamento in attesa di diventare legge, “E’ il segnale che si sta muovendo qualcosa”. Katia Serra oggi ha 45 anni e ha dedicato tutta la sua vita al pallone. Prima da calciatrice, oggi da docente di modelli di gestione del calcio femminile all’Università San Raffaele di Milano e da commentatrice tv (dal 2010 è la prima e unica donna a fare il commento tecnico delle partite di calcio maschili) e responsabile del settore femminile dell’Associazione italiana calciatori, l’organizzazione che tutela i giocatori e di cui dal 2011 è presidente Damiano Tommasi.
La carriera di Katia Serra da centrocampista è durata 24 anni e non è mai stata facile, “Quando ho cominciato a giocare non c’era nessun modello femminile di riferimento, nessuna donna a cui ispirarsi, esistevano solo gli uomini, il calcio era una questione loro”. Katia Serra è diventata grande guardando Michel Platini, grazie a lui ha capito di voler diventare una calciatrice. “A volte era frustrante”, ammette. “Io e le mie compagne volevamo sentirci professioniste. La volontà da parte nostra c’era, mancava tutto il resto: negli anni Novanta nessuno aveva voglia di investire su di noi: non c’erano soldi, strutture e nemmeno visioni e prospettive che ci riguardassero. Noi volevamo continuare a stare in campo, ma facevamo tutto da sole, andavamo all’estero a cercare metodi di allenamento specifici, diete mirate, non smettevamo mai di studiare ma era inutile, il calcio femminile italiano era indietro, non voleva crescere”. Dilettanti allo sbaraglio per legge e per abitudine, per le donne era impossibile vivere di calcio e riuscire a mantenersi. Una cosa escludeva l’altra, il risultato era una passione a mezzo servizio.
Ex campionessa, oggi Serra si occupa di calcio femminile all’Università, all’Aic e a Coverciano. Fa la commentatrice in tv
“Ci si allenava poco e di conseguenza si migliorava poco. Ce ne accorgevamo soprattutto nelle partite all’estero. Stati Uniti, Norvegia, Germania: il loro livello atletico è sempre stato migliore del nostro. Io per sentirmi una calciatrice vera, per togliermi di dosso il dispiacere di tutti i riconoscimenti mancati, mi sono dovuta trasferire in Spagna, dove esiste il professionismo anche tra le donne”. Erano altri tempi. Katia Serra, dopo il ritiro ha cominciato a lavorare per le sue colleghe più giovani, perché non si sentissero discriminate, incomprese o deluse, per non vedere il loro talento scivolare via. “Finalmente c’è una progettualità, un impegno a lungo termine, concreto”. Tra i nuovi diritti delle calciatrici ci sono: la possibilità di firmare accordi economici pluriennali, l’istituzione di un fondo di solidarietà, l’introduzione di un assegno di liquidazione intestato alla calciatrice in caso di infortunio, la possibilità di acquisizione del titolo sportivo da parte dei club professionistici per permettere loro di investire sul settore femminile e l’obbligo per questi club di tesserare almeno 20 Under 12 per creare e far crescere il vivaio.
Katia Serra nel 2015, quando allenava la Nazionale parlamentare di calcio femminile (foto LaPresse)
“Un altro traguardo fondamentale è il bonus maternità, che è stato inserito nella finanziaria del 2017 ed è in vigore da aprile dello scorso anno. E’ una conquista importante, firmata dall’ex ministro per lo Sport Luca Lotti, che prevede un Fondo Unico a sostegno del potenziamento del movimento sportivo italiano con una dotazione di 12 milioni di euro per il 2018 e 7 milioni per il 2019 per finanziare progetti e “sostenere la maternità delle atlete”. Queste garanzie danno stabilità economica alle donne, le rendono più tranquille, più motivate a dedicarsi al calcio a tempo pieno. Follow the money, i risultati sono arrivati subito. Il 7 giugno la Nazionale azzurra partirà per la Francia per giocare i Mondiali (loro sì, si sono qualificate). Non succedeva da vent’anni, era il 1999 quando l’Italia partecipò per l’ultima volta, perdendo al primo turno. Questa volta è diverso: Barbara Bonansea, Cristiana Girelli, la capitana Sara Gama e le loro compagne si sono qualificate grazie a sette vittorie su sette partite disputate. Giocando si impara, si migliora, aumenta la qualità, si creano agonismo ed entusiasmo, serve anche quello nello sport. Le prime società italiane a investire sulle donne sono state la Fiorentina, Sassuolo e Empoli, poi a ruota tutte le altre. L’arrivo di Juve, Roma e Milan ha aumentato la visibilità e creato interesse verso il movimento. Infatti oggi Sky trasmette il campionato di Serie A. In questa stagione la Juventus è prima con 40 punti, poi subito dopo ci sono la Fiorentina a 37, e il Milan a 36. “Nelle ultime stagioni il livello si alzato, com’è naturale che sia quando hai le strutture, allenatori qualificati, visioni di gioco e tempo a disposizione”.
Secondo gli ultimi dati disponibili, relativi al 2016-2017, ci sono 23.903 calciatrici tesserate; tra di loro 2.793 atlete (lo 0,3 per cento della popolazione) hanno tra gli 8 e i 10 anni; 2.664 hanno tra gli 11 e i 12 anni. I numeri sono in crescita. “La cosa più importante è che le bambine non hanno più paura di avvicinarsi a questo mondo. La cultura sta cambiando, l’educazione anche e oggi sia le madri che le loro figlie hanno capito che anche il calcio è uno sport in cui vale la pena impegnarsi, perché c’è una stabilità, un livello e una prospettiva che prima non c’era”.
Katia Serra crede nel merito più che nelle politiche di genere “Sono utili all’inizio, per poter accedere a mondi dominati dagli uomini, ma a volte vengono portate avanti con un estremismo che risulta controproducente. Non dobbiamo autoghettizzarci da sole”. Essere donne non basta mai. A volte non basta nemmeno la competenza, venticinque anni di carriera, una vita passata a correre dentro a un campo, a studiare sui manuali di calcio: “All’inizio da commentatrice di calcio maschile ho fatto molta fatica. Gli uomini mi guardavano come solitamente si guarda una donna che parla di calcio. Ne soffrivo ma continuavo. Non ho mai messo in dubbio il mio ruolo”.
L’ex calciatrice, oltre alla tv, dal 2014 è anche docente di calcio femminile al centro tecnico di Coverciano. Nelle sue ore di lezione insegna agli uomini che la ascoltano, futuri allenatori, che a calcio possono giocare tutti, che non esistono limitazioni nell’essere nate donne, che lo sport è sempre lo stesso, ma con caratteristiche mentali e fisiche diverse. “La donna rispetto all’uomo è meno forte fisicamente e meno veloce, ma ha tanta tecnica ed è più capace di fare gioco di squadra. In più, rispetto ai nostri colleghi, siamo più coordinate, il nostro approccio psicologico è rivolto al miglioramento costante e non al risultato finale. Abbiamo ossa, struttura, ormoni e muscoli diversi, il nostro fisico non sarà mai forte come quello dell’uomo, ma a livello tecnico se continuiamo a investire sul pallone possiamo raggiungere i livelli degli uomini”. Sono passati cinque anni dalle frasi di Tavecchio e dalle “quattro lesbiche” di Belloli, dagli insulti, l’indifferenza, le risate di sottofondo, le briciole e gli scarti dello sport più amato dagli italiani.
Meglio puntare sul merito che sulle politiche di genere, portate avanti
con un “estremismo controproducente”
Oggi, Katia Serra lo conferma, è un buon momento per il movimento femminile. “Adesso vorrei che il nostro calcio diventasse autonomo da quello maschile, che cominciasse a camminare senza avere bisogno di portarsi dietro il peso dei paragoni. E’ un problema culturale e sono convinta che si possa invertire la tendenza: sono contenta che guardando Egonu, Sylla e Chirichella a nessuno venga più in mente di confrontarli con Juantorena e Zaytsev”. Non è il suo unico obiettivo, Katia Serra ha cento cose per la testa ed è determinata a portarle avanti tutte. “In attesa di diventare un giorno professioniste a tutti gli effetti, il mio sogno è che anche il calcio femminile cominci ad avere modelli di riferimento, figure a cui ispirarsi. Ronaldo, Messi, Mbappé e Neymar vanno benissimo, ma l’altra metà del cielo sta diventando numerosa, affollata di talenti e di entusiasmo”. Barbara Bonansea, Ilaria Mauro, Martina Rosucci, Sara Gama è grazie a loro se l’Italia quest’estate parteciperà ai Mondiali.