Il Pisa insegue la serie B, guidato dal suo guerriero Moscardelli
Mai banale, mai uguale a se stesso, a cominciare dall'aspetto. L'attaccante mette nel mirino il derby toscano con l'Arezzo
Le urne sono spesso divertenti, non solo in politica. Anche nel calcio regalano incroci particolari, come capitato nei playoff di serie C, la cui lunga marcia maoista è giunta al quarto turno. Archiviato con successo un derby, al Pisa se ne presenta un altro, quello con l'Arezzo. Partita particolare, come tutte quelle che interessano squadre toscane, con rivalità cittadine che risalgono all'Italia dei Comuni. Ancora più particolare per Davide Moscardelli, finito al Pisa la scorsa estate dopo due annate vissute con l'Arezzo, sempre segnando. Non con la frequenza di un tempo ma con buona continuità: otto reti nella stagione regolare, più quella di apertura nel ritorno dei playoff contro la Carrarese. Una partita che sembrava quasi una rimpatriata di vecchie glorie, visto che se da una parte c'era il 39enne Moscardelli, dall'altra rispondevano con i 40enni Massimo Maccarone e Francesco Tavano.
Ma la punta del Pisa tutto si sente, tranne che un sopravvissuto. Scende in campo con la stessa determinazione che ha contraddistinto una carriera cominciata nel 2001 e affacciatasi tardi in serie A, alla soglia dei 30 anni. Tre campionati con il Chievo e due a Bologna, con alcune reti da ricordare (quella segnata insieme con il quasi coetaneo Sergio Pellissier, appena congedatosi dal calcio, alla claudicante Inter del post-Mourinho nel novembre 2010) e con gesti tecnici a volte inaspettati: una rabona qui, un tiro meravigliosamente a giro là, un elastico per disorientare il marcatore di turno. Mai banale, mai uguale a se stesso, a cominciare dall'aspetto, con quella barba e quei baffi cresciuti e curati nel tempo, che ne hanno fatto il primo calciatore hipster italiano, dal profilo vagamente risorgimentale.
Aspetto e combattività che lo hanno reso un simbolo ovunque sia andato, anche in un Pisa che sta cercando di ritrovare la piccola gloria d'un tempo. Questa era la città e la squadra di Romeo Anconetani, ancora vivo nella memoria di chi ha vissuto a fondo il calcio degli anni Ottanta. Era l'epoca dei presidenti padroni, con le proprietà straniere ancora lontane dal palesarsi: facevano tutto loro, dalla gestione della campagna acquisti a quella dello spogliatoio, cacciavano i tecnici e mandavano le squadre in ritiro punitivo, affiancati da pochi fidati collaboratori che - spesso - si trasformavano in cortigiani familiari con la delazione. Anconetani prende il Pisa nel 1978 in serie C e lo porta in A nel 1982, dopo tredici anni di assenza. Per ironia della sorte, con un allenatore livornese come Aldo Agroppi. Un 1982 in cui può diventare anche presidente, dopo essere stato radiato a fine anni Sessanta per illecito sportivo: la vittoria al Mondiale spagnolo genera una grazia federale che cancella tutti gli errori. In quel periodo Anconetani non era stato comunque con le mani in mano, gestendo compravendite di giocatori: in pratica, primo agente nella storia del calcio italiano. Lo può fare grazie a un favoloso archivio in cui, inesistente Internet, raccoglie negli anni i profili di 40.000 calciatori grazie alle relazioni di osservatori fidati. Una dote che sfrutta nel Pisa: Anconetani non è industriale o imprenditore, vive solo di calcio e mantiene il club grazie al mercato.
Un'avventura che in serie A si protrae fino al 1991, in cui si vedono stranieri di ottimo profilo (due nome su tutti: Dunga, avuto in prestito dalla Fiorentina nel 1987, e Diego Simeone, acquistato dal Velez nel 1990), altri di buone qualità (Wim Kieft e Klaus Berggreen), altri finiti nella categoria dei bidoni (il mai dimenticato Jorge Caraballo). Ad Anconetani non bastano la bravura personali e i gesti scaramantici: se Costantino Rozzi indossava sempre calzini rossi e Aldo Spinelli doveva avere un capo colorato di giallo, lui spargeva sale a iosa prima del match per allontanare il malocchio. La retrocessione segna la fine di Anconetani, disarcionato nel 1994 dalla caduta in B. Il Pisa rischia di scomparire, riparte dall'Eccellenza, passa da proprietà traballanti, si ritrova un cane come presidente quando Maurizio Mian, che prende in mano il club nel 2002, lo affida a Gunther IV, un pastore tedesco cui l'inesistente nobildonna Carlotta Liebenstein avrebbe lasciato un'eredità di 137 miliardi di lire negli anni Novanta a patto di entrare nello sport. Tutto falso, tutto costruito a tavolino, solo per fare notizia. Oggi la realtà è più solida e ha messo ancora una volta il Pisa sulla strada che conduce alla serie B, conquistata l'ultima volta nel 2016 con Gennaro Gattuso. Un guerriero in panchina, come Moscardelli lo è sul campo.