La pallacanestro secondo Pozzecco
Così da coach ha portato Sassari in finale scudetto: “Vincere qui è straordinario”
L’altro giorno da Formentera è arrivata anche Tanya, la sua fidanzata. Lui è andato a prenderla in aeroporto, sono tornati a casa, l’ultimo arrivato in famiglia è Coco, il gatto, Gianmarco gli sta prendendo ancora le misure. “Siamo andati a fare la spesa in centro commerciale qui vicino, e Tanya è rimasta a bocca aperta. Sta con me da sette anni, ne ha viste di tutti i colori, ma a questo non c’era ancora abituata: ci sono quelli che mi dicono ‘dài Poz, grande, vai’, e poi ci sono quelli che mi abbracciano, mi stringono, mi dicono grazie, grazie per quello che stai facendo, per i ragazzi, per noi”. Sta facendo che ha vinto la prima coppa europea della storia del club, e adesso Sassari è in finale scudetto di basket. La serie prenderà il via stasera. Gianmarco Pozzecco, l’allenatore, intanto lo abbracciano per strada. “Sono più gli anziani dei giovani – dice al Foglio Sportivo – ma non chiedetemi perché: non me lo so spiegare. C’è un senso di gratitudine, una sorta di umiltà diversa. La verità è che è più facile fare certe cose in certi posti. Nella pallacanestro vincono Varese, Cantù, Bologna. Ogni tanto vince Roma. Magari Caserta. Se succede qui è qualcosa di straordinario. Un po’ come il Cagliari di Gigi Riva. Sarei onorato di conoscerlo”.
Vive a Formentera. “Sono un fancazzista professionista, vivo una non notorietà. Passare inosservato non mi pesa”
Da ragazzo trovava sempre un modo per farsi notare. E quando tutti davano per scontato che lo facesse sul parquet, lui inventava qualcosa per elettrizzare la vita di tutti i giorni, con la stessa frequenza con cui si colorava i capelli di un colore nuovo. C’è gente che non è venuta al mondo per la normalità, ma per mostrarci che ogni cosa può essere illuminata. Poz è così. Anche adesso che è più vicino ai cinquanta che ai quaranta, così almeno è scritto sui documenti.
A me basta guardare De Pol per capire che siamo invecchiati, poi vedo Meneghin, il Menego, e mi dico: non è così male. Poi vedo me e penso che non è cambiato niente”. Ride. Ma lo sa che non è vero. “Anche se non fai più il coglione, l’età ti porta a fare fatica, quell’energia che avevi a venticinque anni non ce l’hai più. Ma mi basta averli vicino, avere i miei amici, per ritrovare subito quella spensieratezza. Contro Milano averli lì dietro mi ha tranquillizzato. Io mi giravo verso di loro e loro mi mandavano affanculo. Mi ha fatto bene”.
Uno pensa a Pozzecco e se lo immagina sempre a mille all’ora, mai una volta in bianco e nero, sempre in piena estate, con l’ombrellino infilato nel bicchiere da cocktail, i bragoni da surf e le infradito. “Vivo a Formentera, e il turista italiano questo lo associa all’aperitivo, la cena sulla spiaggia, le tette, i culi, i palestrati. Invece no, io vivo l’autunno e l’inverno di Formentera, sto quasi rintanato in casa, c’è pochissima gente, quasi nessuno, e insomma per dieci mesi all’anno vivo in un posto dove praticamente non mi si fila nessuno, sono normale. Non lavoro, sono un fancazzista professionista, e quindi vivo una non notorietà. Passare inosservato è una cosa che non mi pesa, tutt’altro, mi fa stare meglio”. La libertà totale l’ha trovata nel non avere un ruolo, nel non dover indossare una maschera. “L’ho letto in un libro di Vito Mancuso. Vivevo immerso nella gente, nella confusione, e mi piaceva. Adesso sto nella solitudine. Anche a Sassari: alleno, pranzo con lo staff, torno a casa e non esco più. Sardara, il mio presidente, me lo dice: “Che fai, stai sempre in casa?”. A Formentera al massimo vado al caffè Verdera, saremo in cinque, e loro non sanno chi sono. Sono tedeschi, marocchini, operai che cercano un impiego per un giorno. Stanno lì, aspettano. E’ tutto vero, niente di facciata”.
“Ho perso una Coppa Italia a Varese perché ho avuto paura di vincere, poi abbiamo capito e abbiamo vinto il campionato”
Lui gli allenatori se li mangiava, uno dei momenti grandiosi fu quando nel derby di Bologna battè la Virtus di Tanjevic, che in Nazionale lo teneva fuori, e fece il gesto di schiacciare il suo sigaro sotto le scarpe. Poz allenatore, chi lo avrebbe mai detto. “Me lo chiedevano spesso quando giocavo, ma io non ho mai avuto la preoccupazione del dopo. Da bambino invece quando mi chiedevano cosa volevo fare da grande rispondevo lo sportivo, o l’astronauta. Quando ci sei non è che pensi che vuoi diventare ricco e famoso, sei contento, sei bravo, sei totalmente coinvolto in quello che fai”. E un giorno ti trovi a fare con gli altri quello che non sopportavi dei tuoi allenatori. “Un classico. Odiavo quelli che dicevano: allora ragazzi mi raccomando professionalità, date tutto, poi il giorno che siete stanchi venite da me e vi lascio liberi. Succedeva, andavi dal coach a dire sono stanco, e lui ti guardava male. Se io dico una cosa, la mantengo. Chiedi a Jack Cooley: è innamoratissimo della sua fidanzata, lei fa la maestra in America e gli manca tanto. Quando so che arriva vado da lui: vai da lei Jack, stacca, cosa ti cambiano venti minuti di tiri in più? Portala al mare. Ma sai cosa? Tutti ti dicono: hai fatto bene. Però non lo fanno. Mi risulta che l’abbia fatto soltanto Mourinho con Stankovic”.
Il suo discorso alla squadra prima della semifinale di coppa è qualcosa che colpisce al cuore. “Non mi preparo mai nulla, comincio a pensare a cosa dire cinque minuti prima. Se ti prepari viene fuori qualcosa di artefatto, allora tanto vale che ti vai a vedere “Ogni maledetta domenica” e traduci quello che dice Al Pacino, cambi due o tre parole per confonderli. No. E’ complicato, ho avuto tanti motivatori che non motivavano per niente. Ai ragazzi ho detto quello che sentivo: nessuno si ricorderà che avrete perso questa stupida partita, ma se riusciremo a vincere tutti si ricorderanno che siamo arrivati alla finale. E lo dice uno che non ha vinto quasi un cazzo… non sono Danilovic o Guardiola. Io ho perso una Coppa Italia a Varese perché ho avuto paura di vincere, ma poi abbiamo capito e abbiamo vinto lo scudetto”.
Sta arrivando l’estate, la vita a colori, l’eterna giovinezza. Ma è il rumore della battaglia quello che si sente in sottofondo. “Una cosa che non sopporto è che i miei giocatori non si fidino di me, io posso sbagliare, ma non mancargli di rispetto, non di proposito. Lo so che li rendo infelici quando li tolgo dal campo, questo mi ferisce. Ma quello che sta vivendo la gente mi rende felice, e il merito è dei risultati. Il giocatore vive di meritocrazia, il giocatore forte è forte, Messi rimane Messi, Cristiano Ronaldo idem. L’allenatore no, l’allenatore dipende dai risultati e quindi non ci penso e basta”. Tanto lo sa che dimenticarlo sarà impossibile.