No, il dibattito no. Se il calcio femminile entra nella Casa internazionale delle donne
Cronaca di Giamaica-Italia vista in uno dei templi del femminismo romano. E al novantesimo scatta l'immancabile discussione sulla parità di genere
Se oggi siamo qui a scrivere di mondiali femminili e a festeggiare i 5 gol dell'Italia contro la Giamaica è perché mai prima d'ora il calcio italiano è sembrato così tanto un affare per donne. Ci piacerebbe immaginare quelli che da sempre seguono le vicissitudini dell'altra metà del pallone vivere il proprio momento di gloria: una stagione sui canali mainstream è una bella bandierina messa in un contesto tradizionalmente maschilista; finalmente birra e partita, va in scena il riscatto. Ma sarebbe troppo semplice, e dunque non basta. Non basta a chi non sa trattenersi dall'offrire una visione socialmente impegnata delle cose, di tutte le cose, sport compreso, e l'occasione si fa ghiotta per trasformare una partita in dibattito. Così anche a Roma la Casa internazionale delle donne ha deciso di proiettare la partita giocata venerdì a Reims e di approfittarne per un momento di riflessione: maxi schermo e sala piena, un successo di presenze durante il primo tempo, un po' meno il secondo (nonostante tre gol su cinque segnati dopo il quarantacinquesimo), partecipato il dibattito moderato da Sara Tardelli (giornalista sportiva e figlia di Marco, campione del mondo nell'82).
Il cortile di via Lungara con i tavolini, in un pomeriggio di metà giugno, è un posto perfetto per prendere un po' di fresco, molto meglio della sala con il maxi schermo. Così alcune restano fuori a bere un drink, che se della partita importa poco basta sentire la telecronaca. Le appassionate in prima fila, donne che hanno giocato a calcio quando farlo era davvero poco comune, le curiose un po' a zonzo, tra bandierine dell'Italia sventolate e bandierine disegnate sui volti. Ti accorgi che le curiose sono in maggioranza quando arriva il terzo gol – messo a segno con un fortunato colpetto di testa – e passa in sordina, senza l'esultanza riservata al rigore segnato da Girelli, un gol da manuale anche per le tifose più distratte.
Capita di sentire un telefono che squilla e ogni tanto qualcuno esce con i bimbi più piccoli per una passeggiata. Di bambini e bambine la Casa è piena, perché se è vero che le habitué sono sia giovani sia meno giovani, la maggior parte sono donne che stanno negli “anta”, alcune, poche, in compagnia di mariti o compagni. In sala colpisce il calcio in faccia che ha ricevuto Sara Gama per la rovesciata mal coordinata di Bunny Shaw: “Ma non era da cartellino rosso? – qualcuna domanda, senza troppa foga – Ammazza che botta!”. La sensazione è che per molte delle donne lì alla Casa, l'essenziale non sia vincere. Le azzurre in campo sì, loro si sono assicurate la vittoria molto presto, staccando la Giamaica di tre reti già all'inizio del secondo tempo. Le ragazze di via Lungara invece sanno che anche per le reggae girlz è importante essere lì, partecipare ai primi mondiali femminili della loro storia: “Ho letto – ricorda qualcuna alle amiche – che la figlia di Bob Marley le ha aiutate molto”.
Ritrovarsi in una stanza piena di donne – con otto uomini nei momenti di massima concentrazione di testosterone – è strano, durante una partita di calcio. E' l'idea di tifo che appare diversa. Fuori dai gol nessuna si sgola, nessuna urla contro gli avversari, non si incita troppo la squadra e si esulta quando serve, come se invece di tifare Italia si stesse piuttosto guardando uno spettacolo, dove l'applauso scandisce i momenti importanti, le reti a segno. Uno spettacolo bello, che al quinto gol fa alzare l'intera sala in piedi e al fischio finale fa sorridere e abbracciarsi. Ma il confronto viene spontaneo: 50 uomini sarebbero mai stati in grado di seguire 94 minuti di mondiale seduti in file di sedie ordinate, come se fossero allestite per il pubblico di una conferenza, senza mettere infine tutto a soqquadro? Probabilmente no, ma non è questa l'unica differenza che viene in mente durante la serata. E qui non si parla del fatto che le partite giocate dalle azzurre hanno una resa diversa rispetto a quelle giocate dagli uomini, che sono per usucapione il metro di confronto e appassionano un pubblico maggiore, perché il calcio non è solo una questione di tecnica ma anche di fisicità, e di memoria collettiva. Qui si parla del fatto che un uomo mai, e poi mai, avrebbe immaginato di ascoltare un dibattito dopo una partita, tanto meno un dibattito che non parla della partita, ma della valenza culturale e sociale del calcio. All'uomo più sensibile e attento alle pari opportunità, bisognerebbe provare anche solo a spigare che un momento goliardico di sport può diventare un momento di riflessione. L'unico uomo che ha detto sì, ci provo a partecipare, ha retto mezz'ora di dibattito in pubblico prima di essere fischiato per le sue parole. Piercarlo Presutti, capo della redazione sportiva dell'Ansa era il solo maschio tra cinque donne e ha avuto l'idea, a un certo punto, di ricordare l'infelice uscita di Carlo Tavecchio, quando nel 2014 disse che le calciatrici sono “handicappate”. L'intenzione era quella di circoscrivere l'accaduto, per dire che una parola sbagliata di un singolo non può rappresentare l'idea collettiva. Ma niente, impossibile convincere il pubblico: le parole hanno un peso anche se sono solo un inciampo. Il dibattito, che per un attimo si è fatto goliardico, torna serio. E il microfono passa di mano.
Sarebbe bello festeggiare la vittoria e sventolare la bandiera dell'Italia, ma qui, a via della Lungara, così come di fronte a molti altri schermi, la vittoria della nazionale femminile italiana anima bandiere diverse. Quella del femminismo, delle pari opportunità, della parità di genere. E quando il dibattito si polarizza, perché per alcuni schierarsi è più importante che partecipare, inevitabilmente una parte di pubblico si perde. Si perde quel pubblico, per esempio, a cui di calcio frega poco, ma che di farne una questione di genere no, non ha voglia. Che volentieri avrebbe colto l'occasione per tifare Italia, come solo ai mondiali si può fare, ma che di fronte all'idea di “segregazione sportiva” non ce la fa a buttare giù la birra. E allora ci si chiede, ma per sostenere un cambiamento culturale che già sta mettendo radici, non sarebbe meglio lasciare che le immagini delle ragazze mondiali parlino per sé? Sono donne, cocciute, con le tette, i capelli lunghi o corti, alcuni tinti, corrono sul campo, segnano cinque gol: rappresentano un messaggio che vale più di mille parole. E probabilmente quest'estate in rosa con gli azzurri in panchina resterà un ricordo sfocato con l'arrivo del prossimo campionato. Ma come ha detto Loredana Pesole dell'associazione nazionale Atlete, tra le donne che hanno animato il dibattito alla Casa Internazionale, “indietro non si torna”. E sarà bello anche andare avanti, perché è certamente vero che c'è ancora molto da fare per garantire l'accesso delle femmine al calcio, fin dall'infanzia, perché dopo aver visto anche distrattamente una partita di questi mondiali, nessuno può ignorare che le giocatrici che si sono qualificate non sono riconosciute dalla federazione come professioniste – e non hanno quindi tutele e diritti, dai contributi alla malattia, dal Tfr alla maternità – come accade, invece, per i colleghi della squadra maschile. Ma se il messaggio inclusivo dev'essere, meglio non eccedere con la polarizzazione del dibattito. Altrimenti ad ascoltarlo resteranno in pochi.