Platini, torna su quel poster
L'ex presidente dell'Uefa fermato dalla polizia e quello che ha fatto innamorare anche i non tifosi della Juventus
Quel poster che avevamo in stanza durante la nostra gioventù stava cadendo a pezzi. Non era il tempo a logorarlo, non si stava rovinando perché era lì da quando eravamo giovanissimi. Il problema era l’immagine stampata. Era così bello; molti di noi – ora quarantenni, anche cinquantenni – da ragazzi lo avevano steso con cura e fissato al muro con il nastro adesivo trasparente, in modo che venisse coperto solo in modo impercettibile. Poi lunedì scorso è come se tutti fossimo tornati a casa dei nostri genitori per entrare nella nostra vecchia stanza, quella che di solito rimane così com’era il giorno in cui siamo andati via, per liberarci di quella specie di reliquia, che a furia di diventare periodicamente meno affascinante ora era diventata di troppo. Un macigno. Via quel Platini dal muro, quella foto gigante a cui avevamo affidato un po’ di sogni nostri, con la quale eravamo cresciuti quasi a contatto, sedotti dal potere della bellezza che trovava magnifica applicazione nel suo modo così francese di giocare a pallone. Volevamo essere così: eleganti, discreti, carismatici senza urlare, sempre pronti a camminare a testa alta e, se proprio le cose cominciavano a diventare complicate, in grado di risolvere tutto solo con un’idea. Non nel calcio, nella vita. Perché già da allora, mentre viaggiavamo tra le medie e le superiori, tra calcio e vita vedevamo così tante analogie da convincerci che, in fondo, fossero la stessa cosa.
Platini era una specie di spirito guida anche per chi non era juventino, ma amava il calcio. Da aspiranti adolescenti si cresceva guardandolo segnare, dribblare, calciare le punizioni e si poteva flirtare con quei movimenti regali senza sentirsi traditori, perché quella è la fase della vita di ognuno di noi in cui la fede è troppo acerba e dunque tifi, ma puoi anche guardare altrove con innocente stupore e hai ancora tempo per farti venire la bava alla bocca e odiare qualunque avversario. Amavamo la sua maglia fuori dai pantaloncini, sembrava un gesto anticonformista e invece aveva la sua eleganza. Pensavamo che non fossero possibili gol belli come quello all’Argentinos Juniors dell’85 e che, dopo che una così maestosa esibizione di talento fu annullata per motivi ignoti da un arbitro di cui volutamente non ricordiamo il nome, ci fossero solo modi incivili per protestare contro uno scippatore di sogni in abito nero. E invece Platini si distese sul campo, su un fianco, poggiando la testa sulla mano sinistra, tenendo il gomito a terra. Una sorta di monumento in vita di se stesso, ma anche la giusta immagine per una celebrazione che ora sembra folle: quella del gol più bello di sempre che però non è mai stato un gol.
Al diavolo il Piccolo Principe, il nostro principe era lui, che tra l’altro era nato nella Rue Saint-Exupéry, al numero sette, di Joef (a pochi chilometri da Nancy), in un giorno di giugno che era ieri (il 21) e adesso è un compleanno triste. Da lunedì Platini ha la fedina morale macchiata dai riflettori accesi su una storiaccia, che per noi appassionati di quel campione era tale già da almeno cinque anni – andando un po’ indietro con la memoria forse anche di più – ma ora passa di bocca in bocca, in modo spietato. L’hanno arrestato, hanno detto al mattino. Ecco, lo sapevamo, abbiamo pensato. Poi non era arresto, ma una serie di accuse alle quali rispondere. Un pranzo con Sarkozy, all’Eliseo. Che già sembra una condanna: lui era così elegante e Sarkozy così vistosamente goffo, come potevano trovarsi alla stessa tavola? E poi gli emiri del Qatar, che stringevano accordi e chiedevano di poter giocare il Mondiale in casa loro, nel 2022. Quel Mondiale che si giocherà d’inverno: su, Michel, quando volevano parlare male di te dicevano che il freddo era nemico delle tue gambe graciline e tu vai a votare per far giocare la più grande manifestazione dello sport che ti ha reso nostro eroe a novembre? Ha detto di essersi trovato per caso davanti ai qatarioti, quasi fosse un passante affamato che entra nella prima trattoria che trova per strada e incontra gente di cui farebbe a meno. Andiamo, sei Le Roi, hai fatto finte molto migliori in vita tua. E in quel caso gli avversari ci cascavano. E poi, tuo figlio che poco dopo quella cena inizia a lavorare per il fondo del Qatar che aveva acquistato il PSG, e poi passa al gruppo Lagardére, la multinazionale delle comunicazioni di cui si parla proprio in quell’incontro. Siamo cresciuti con assessori sfigati di paesi di provincia che si impegnavano a “sistemare” il figlio, ma non tu. Dai, proprio tu no. Che eroe abbiamo avuto da ragazzi? Che diamine di infanzia avremmo avuto se ci avessero raccontato che Superman non volava, ma c’era qualcuno che lo tirava su con un filo? O che l’Uomo Ragno non sparava proprio niente quando piegava la mano, perché in realtà si arrampicava con un sistema di ventose?
Era così diverso, Platini, che da dirigente sportivo pensavamo sarebbe rimasto ai margini di quel campo zozzo in cui da tempo giocavano i padroni della Fifa. Forse avrebbe guadagnato un altro scettro, ma a modo suo, con i movimenti giusti, le parole sussurrate, l’immancabile erre moscia e scegliendo un’opposizione pulita fino a diventare governo. Ma non è mai stata nemmeno un’illusione, questa: il Platini politico ha scelto di giocare subito nello stesso terreno fangoso degli altri, e si è tenuto gli schizzi, inevitabili. Nel tempo è stato giudicato e sospeso da un comitato etico – e fa un po’ ridere pensare che la Fifa di Blatter, quella cancellata da una retata, avesse qualcuno chiamato a giudicare l’etica –, non ha subìto condanne penali, è formalmente innocente, ma partecipe di tutti quegli eventi sospetti che lo hanno fatto rimanere venti ore a colloquio con la polizia. E adesso, quando lunedì il distacco dal nostro campione che ormai era inesorabile è diventato inevitabile, vedendolo entrare nella caserma della polizia giudiziaria di Nanterre, ci siamo resi conto che è finita la nostra adolescenza da innamorati del pallone.
“Ho il mio giardino segreto”, disse Platini in un’intervista bellissima a Beppe Barletti del 1983, nel vecchio Tg L’Una della domenica. Parlava di un minimo bisogno di riservatezza quando era a Torino, perché era abituato a parlare con tutti, ma qualcosa voleva tenerla per sé. Ed era però, lui, sempre presente anche nel nostro giardino segreto, quello in cui riservatamente ci votavamo al nostro campione preferito, e nemmeno eravamo juventini. In quell’intervista, assai sorridente, era a tavola. Ma era un’altra tavola, di fronte c’era un giornalista e non degli emiri pieni di dollari. Sembrava sincero, pensavamo fosse così il nostro eroe, quello del poster in cameretta che stava cadendo a pezzi e adesso abbiamo strappato via. Come il ritratto di Dorian Gray voleva dirci che stiamo invecchiando.