foto LaPresse

Umana Reyer and the city

Giovanni Battistuzzi

A far diventare Venezia e Mestre una sola città ci ha pensato il basket. Il risorgimento della pallacanestro in Laguna è una storia iniziata nell’Ottocento e arrivata alla finale scudetto. Parla Paolo Bettio

Mestre guarda dalla terraferma Venezia spuntare dalle acque. Ne intravede il profilo di campanili, cupole e tetti rossi. Ne invidia la bellezza, il prestigio, l’essere unica. Venezia guarda dalle sue isole Mestre affacciarsi sulla laguna. Ne scruta i palazzi che fanno capolino tra gli alberi di punta San Giuliano, le ciminiere che sbucano da quelli di Porto Marghera, incapaci di mascherare una modernità tanto necessaria quanto sgradita. Ne apprezza la praticità, la mancanza di isolamento. Venezia e Mestre stanno dirimpetto eppure sono due mondi incompatibili, incapaci di avvicinarsi, sebbene parte di un’unica amministrazione. Goffredo Parise le vedeva come due “entità d’amor spettrale”, due amanti “che hanno bisogno l’uno dell’altra”, ma che “per incomunicabilità rimangono distanti”. Tra Mestre e Venezia scorrono persone e merci, treni e imbarcazioni. Ma è uno scorrere che non le avvicina, che non riesce a unirle, a farle abbracciare. È una distanza molto più grande dei 3.850 metri del ponte della Libertà, una distanza che perde di consistenza soltanto alla vista di una palla a spicchi, l’unica che riesce a rimbalzare tra le acque della laguna e a rendere veramente unito, quello che le istituzioni hanno riconosciuto nel 2015 come città metropolitana. Una palla a spicchi che è basket, almeno per sport; che è una canotta porpora e oro, almeno per colore; che è unica, almeno per nome. Perché tra tante parole latine che sono valori di riferimento, tra tante semplici Pallacanestro da unire a una città, Venezia porta in giro per i più importanti palazzetti italiani ed europei, un cognome: Reyer. Un cognome che poteva sparire, che è rinato, ha scalato di nuovo la pallacanestro italiana, ha conquistato uno scudetto nel 2017 e se ne sta giocando un altro. Sabato c’è la gara-7 della finale scudetto contro Sassari.

 

 

Reyer non è un acronimo, non è una sigla, non un’eco latino come Virtus, Fortis, Mens Sana, neppure un tentativo di divinizzare lo sport, Olimpia. È un cognome che, almeno a Venezia, vuol dire innovazione e anticipazione, vedere avanti, lottare per un proprio credo indipendentemente dalle avversità e dal senso dell’epoca. Costantino Reyer è uno dei padri della ginnastica italiana, un signore che negli anni Sessanta dell’Ottocento pensò bene che, in pieno Risorgimento, non ci potesse essere risveglio morale degli italiani senza risveglio atletico. Portò nell’isola il suo credo. È nel 1869, il primo febbraio, che venne fondata la prima palestra a Venezia nel rio terà Santi Apostoli, al numero 4012 con lo “scopo il bene fisico e morale della gioventù, l’investigazione ed attenzione di quanto ha rapporto coll’educazione fisica della quale la Ginnastica è soltanto una piccola parte”. È dal 1872 che porta il suo nome.

 


Illustrazione di Francesco Del Re


 

La Reyer per oltre un secolo fu l’immagine della Venezia sportiva: non solo ginnastica e corpo libero, ma anche scherma, remo, nuoto e pattinaggio. E basket. Ancor prima di quando James Naismith ne fissò le regole nel 1891. Era il 1880 quando Reyer, tornato dalla Festa Mondiale di ginnastica tenutasi quell’anno a Francoforte, parlò per la prima volta di quello strano attrezzo ginnico che, posto a tre metri d’altezza, si doveva centrare con una palla. Nessuno in laguna gli diede troppa importanza, ché la palla al cerchio era tuttalpiù un gioco, mica un’attività ginnica. Quel basket-ball ritornò nell’isola nel 1907, riproposta questa volta dall’insegnante della Mens Sana Siena, Ida Nomi Venerosi Pesciolini, come “giuoco ginnastico per giovinette”. Si stabilì in pianta stabile nel 1920 quando la palestra Reyer allestì la prima squadra (improvvisata) di palla al cesto, perché se Mestre aveva la sua squadra, Venezia non poteva essere da meno.

  

Un amore, quello della città per il basket, nato e cresciuto alla Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, per brevità Misericordia e basta. La Reyer si spostò nel 1914 nell’edificio progettato da Jacopo Sansovino. Pochi anni dopo la squadra di pallacanestro iniziò a giocare nel salone al primo piano, tra gli affreschi realizzati dalle scuole di Jacopo Tintoretto e Paolo Veronese. Lì i veneziani videro le prime sfide contro Milano e Trieste. Lì si radunavano quasi in duemila per assistere ai grandi successi negli anni Quaranta, quando festeggiarono due scudetti consecutivi, trascinati da Sergio Stefanini, per tutti Caneon, per Dan Peterson “uno dei più grandi giocatori italiani di sempre”.

 


La Reyer ha giocato alla Misericordia sino al 1976. Nel 1977 si spostò al palazzetto dell'Arsenale


  

Era il periodo nel quale “Venezia ha un cuore che batte per una palla, sfortunatamente è quella da pallacanestro”. Lo disse al Gazzettino nel 1942 Ezio Loik, mezzala prima del Venezia calcio che terminò il campionato al terzo posto nel 1941-1942 e poi del Grande Torino.

  

Anni di vittorie che sembravano non poter più ritornare, nonostante una passione che non si è mai affievolita. Decenni di alti e bassi, di sogni svaniti e tonfi, sino al fallimento del 1996 e alla ripartenza dalla C2. È quello il punto più basso della storia cestistica lagunare con la Reyer che rischiò di fare la stessa fine del Basket Mestre, scomparso dalla geografia della pallacanestro nel 1989. Per dieci anni vivacchiò ai limiti del basket professionistico. Poi nel 2006 la svolta grazie all’acquisizione del club da parte di Luigi Brugnaro. “L’Umana Reyer è nata sulle ceneri di un doppio disastro sportivo. Una delle prime cose che è stata fatta è stata quella di unire Venezia e Mestre sotto un unico colore affinché una cosa del genere non potesse più accadere. È stata seguita un’idea precisa: non è nella divisione, ma nell’unione che si può pensare di contare qualcosa”, dice al Foglio Paolo Bettio, responsabile marketing dell’Umana Reyer. “E ormai questo messaggio è stato assorbito anche dai tifosi che si sono resi conto che solo uniti si può vincere e che da soli non si va da nessuna parte”.

 

Lo scudetto conquistato il 20 giugno 2017 a Trento, al termine di gara-7 contro la Dolomiti Energia, la Fiba Europe Cup alzata al Palasport Taliercio l’anno dopo contro la Sidigas Avellino, sono il frutto di un lavoro decennale che ha compattato Venezia e Mestre in una nuova dimensione, quella di sentirsi, almeno nel basket, una cosa sola.

 

 

Un progetto, quello della Reyer, ripartito guardando il futuro con cognizione esatta di cos’era il passato, di cosa voleva dire quel cognome diventato squadra. “Siamo ripartiti non dalla prima squadra, ma dai giovani. Siamo ripartiti per tornare nel grande basket, questo è certo, ma per farlo abbiamo cercato di rendere grande il nostro territorio”, continua Bettio. "Il settore giovanile per l’Umana Reyer è sempre stato strategico, non solo per avere una fucina di talenti per la prima squadra, soprattutto per creare una rete che, partendo dal basket, potesse unire tutta la comunità. Tutto ciò negli anni ha portato a quello che siamo oggi”. Ossia 33 formazioni giovanili legate alla prima squadra, oltre 5.000 ragazzi all’interno del Reyer project: “Tutto questo ha dato a Venezia e a Mestre una ventina di scudetti nel settore giovanile”. Un progetto che si è allargato, che da Venezia ha raggiunto gran parte del Veneto grazie alla Reyer School Cup, un torneo che coinvolge circa 40mila ragazzi e 48 istituti scolastici superiori tra Venezia, Padova, Treviso e Belluno. “Un evento che non è solo competizione agonistica, ma che coinvolge tutto l’istituto. Perché i ragazzi devono riprodurre la composizione di una squadra professionistica: devono avere un allenatore, un ufficio marketing, allestire coreografie e imparare a gestire le dinamiche di squadra. Noi ci occupiamo di tutto il resto, dalle canotte alla logistica. E questo è un modo per tentare di far capire ai ragazzi la complessità del mondo, prepararli a ciò che prima o poi andranno incontro”, sottolinea Bettio. Un progetto, inoltre, che coinvolge uomini e donne, unico caso in Italia almeno nei massimi campionati professionistici: “La Umana è partita prima a sponsorizzare la compagine femminile Reyer, l’idea di mettere assieme donne e uomini era una delle priorità della società perché è un modo per realizzare la parità di opportunità tra i sessi”.

 

 

Una versione aggiornata di quanto scriveva Pietro Gallo nel 1874. Il nostro “unico e nobile scopo” è quello “di propagandare le discipline ginnastiche in tutte le classi sociali”, riuscendo così “a ingentilire ed educare la mente e il cuore al sentimento più bello. Era uno spettacolo veramente confortante il vedere, dopo poche lezioni, i giovani abituati all’indisciplina, al vizio, alla bestemmia, al parlare licenzioso, paventarsi rispettosi, disciplinati e puliti della persona”.