400 metri da mal di testa
Davide Re racconta il suo record. Ecco chi è il primatista italiano, il primo atleta italiano a scendere sotto i 45", che non vuole fermarsi
Vorrebbe urlare ogni parte del corpo. Basta guardare gli occhi degli atleti che corrono, i loro muscoli scolpiti e stremati. “Pura sofferenza”, non ci sono altre parole per definire gli ultimi passi di una gara di quattrocento metri. “Si tratta di dieci secondi: stai male, stringi i denti e continui ad andare. Non ci sono alternative”.
Davide Re ha ventisei anni ed è il nuovo primatista italiano dei 400 metri. Al Meeting di Ginevra ha conquistato il nuovo record italiano con un tempi di 45’’01, un centesimo di secondo che non è nient’altro che uno stimolo per migliorarsi ancora: “Quell’uno in coda – spiega al Foglio Sportivo – mi aiuta a non sedermi sugli allori, Inconsciamente, se avessi abbattuto il muro dei 45 secondi mi sarei rilassato e non posso permettermelo”. A La Chaux-de-Fonds, in Svizzera, ieri, si è migliorato ancora, portando il suo primato a 44"77, primo italiano a scendere sotto i 45".
Già dopo la vittoria in Svizzera, l’atleta italiano delle Fiamme Gialle aveva ottenuto lo standard di qualificazione per i Mondiali di Atletica di Doha, che cominciano il 27 settembre. Pochi mesi più tardi ci sono le Olimpiadi di Tokyo e lui, attualmente numero 29 della classifica (il suo best ranking è al numero 23), vuole esserci.
Oggi Davide Re si allena a Rieti con Maria Chiara Milardi, che in tre anni ha portato due atleti a raggiungere il record italiano (oltre a quello di Re c’è anche quello, ormai superato, di Matteo Galvan).
"Mi sono trasferito da Imperia nel Lazio perché mi piace il metodo di allenamento che ha Maria Chiara, lei ha capito prima degli altri in Italia che i 400 metri non sono soltanto una gara di resistenza, per vincere devi essere prima di tutto veloce”. Non c’è niente di strano in una donna che allena un uomo. “Vorrei che il suo ruolo fosse un’ispirazione per altre donne che vorrebbero allenare ma ci rinunciano preventivamente perché pensano che sia un mestiere riservato agli uomini. Non è così nell’atletica, e non dovrebbe essere così in nessun altro sport”.
Davide ha deciso di trasferirsi e di scegliere Milardi come coach dopo un anno di passi indietro, rallentamenti e traguardi raggiunti in ritardo: “Avevo pensato di smettere, non riuscivo più ad andare veloce. Mi ricordo di aver pensato al ritiro. Non aveva più senso tutta quella fatica se non riuscivo a migliorarmi. Era frustrante stare in pista tutto il giorno inutilmente”. L’atleta azzurro si era appena iscritto a Medicina e stava per diventare maestro di sci, aveva il futuro in tasca, niente stress, mal di schiena, acido lattico né rilascio di endorfine. “Ne ho parlato con mio padre, alla fine però ho capito che se non ci avessi provato fino in fondo avrei rimpianto questa scelta per tutta la mia vita”. Aveva ragione, gli sci possono aspettare, il giuramento di Ippocrate anche, non c’è nessun paragone all’attimo dopo in cui tagli il traguardo e ti accorgi che davanti a te non c’è nessuno, che sei primo.
Dal 2017, da Rieti in poi, Davide ha ritrovato la corsa e la velocità “I miei muscoli non sono più adattabili come quando avevo sedici anni. Ho cambiato modo di allenarmi, adesso lavoriamo molto per cercare sulla tecnica, per cercare di spendere meno energie e per migliorare il finale”. Anche se, spiega Davide, gli ultimi cento metri di una gara sono poco allenabili. E’ istinto, ostinazione, capacità di sopportare la mancanza di fiato, agonismo, la coda dell’occhio verso il tuo avversario e il desiderio di fare meglio. L’ultima curva è soprattutto adrenalina, talmente forte che cancella tutto il resto e aiuta a non sentire il dolore. “Alla fine di ogni gara mi viene sempre un fortissimo mal di testa. Credo che sia una conseguenza di tutto lo stress mentale accumulato”. Non è solo una questione fisica, bisogna avere la testa per continuare a correre senza rallentare. “Un’altra cosa che ho imparato, come al solito sbagliando, è che le energie a nostra disposizione sono pochissime, non bisogna sprecarle facendo inutili scatti, strattoni, o cambi di ritmo”.
I quattrocento metri sono soprannominati killer event, l’unico sforzo paragonabile è quello che un nuotatore fa nei duecento metri stile libero: in queste due discipline si ha infatti la massima produzione di acido lattico in relazione alla forza delle contrazioni muscolari, che dopo il minuto diventano meno intense. “In pratica, detta brutalmente, facciamo tanta fatica per tanto tempo”. Può sembrare masochismo fino a quando non entrano in circolo le endorfine o fino a quando non ti accorgi che stai per partecipare ai Mondiali e allora ti metti le mani in testa e l’unica cosa che provi è un sentimento di gratitudine nei confronti della corsa, delle gambe che non ti hanno tradito, del dolore che hai provato e anche della frustrazione che per un anno è scesa in pista insieme a te.
L’idolo di Davide Re, che fino a dieci anni ha praticato tutti gli sport possibili e non ce n’era uno in cui non fosse portato (a 16 anni è arrivato terzo al Trofeo Topolino di sci) è Roger Federer: “Mi sembra l’esempio vivente del fatto che la caparbietà viene sempre ripagata. Se hai le giuste motivazioni puoi continuare a giocare anche dopo i trent’anni, e divertirti, vincere e toglierti ancora delle soddisfazioni”. Lui a trentotto anni non si immagina in una pista di atletica, ha fatto i conti con la durata effimera delle carriere degli sportivi, per questo si è portato avanti “So che il momento giusto è adesso o mai più. Non possiamo logorare il nostro corpo per troppo tempo. Mi sono dato obiettivi a medio termine che spero di raggiungere, come i Mondiali e le Olimpiadi. Poi, tra dieci anni vorrei essere un ortopedico, per continuare a lavorare con gli atleti, ma da lontano, senza rimpianti”. Tra dieci anni potrebbe cominciare a dedicarsi alle maratone, correre 42 chilometri invece che 400 metri. Se glielo si fa notare lui si mette a ridere e dice: “Non scherziamo, quando in allenamento provo a misurarmi con tempi lunghi, a ritmi leggeri riesco ad arrivare a dieci chilometri al massimo, poi comincio a non sentire più le gambe. Dieci chilometri a me sembrano un’eternità, invece non sono niente se ne devi correre altri 32”.
Quattrocento metri bastano e avanzano, soprattutto quando vengono corsi a tempi di record.
Il foglio sportivo - calcio e finanza