Il Foglio Sportivo
Corse, bici, gol e swing col ferro 6. Storie sportive al chiaro di Luna
La maratona lunare di Bikila Abebe a Roma, la tripletta di Pelé che rischiarò la notte di Lisbona, le disavventure del Diavolo Rosso al primo Giro d'Italia. E poi il golf ultraterrestre di Alan Shepard
Il primo sportivo a fare della Luna il proprio “campo da gioco” è Astolfo che nel poema di Ariosto è come Mister Wolf, “risolve problemi”. Lo dice anche l’etimologia: in sassone le Ast , “lancia”e Ulf “che soccorre”. Non può essere che lui ad andare sulla Luna a cercare il senno che Orlando ha perduto. Per Ariosto Astolfo è “il campione” per eccellenza, il vero sporstman. Affronta gli ostacoli come in una gara a eliminazione. A dire il vero trova sempre delle formidabili mental coach: la maga Melissa lo libera dall’incantesimo in cui l’aveva imprigionato Alcina, trasformandolo in una pianta di mirto; da Logistilla invece riceve un corno da guerra e un libro fatato e con questi strumenti in Egitto cattura il gigante Caligorante, sconfigge il negromante Orrilo; poi va a Gerusalemme, sfugge alle Amazzoni, sfida il mago Atlante e il suo castello che appare e scompare; ne libera i prigionieri e doma l’Ippogrifo in groppa al quale vola in Etiopia. Qui libera dalle Arpie, il cieco Senapo, il re-sacerdote cristiano. Dopo di che visita l'Inferno, sale la cima del Paradiso e qui trova san Giovanni Evangelista, che lo scorta sulla Luna a bordo del carro d'Elia: il Lem di Astolfo. Sulla Luna, si sa, si trova tutto quello che si perde quaggiù. A guardar bene anche il senno perso quaggiù dietro alle cose di sport. Ma siccome, a dirla tutta, non vogliamo correre il rischio di trovarlo, torniamo in Etiopia.
Luna maratona – Abebe Bikila, o meglio Bikila Abebe, è nato ad Addis Abeba nel 1928, o forse 1930, o forse 1932. È figlio di un pastore, ed è guardia imperiale di Hailé Selassié. Nel 1960 ha dunque 32, o forse 30, o forse 28 anni. Ma poco importa. Importa che il 10 settembre 1960, a Roma, per la prima volta una maratona olimpica non comincia e non si conclude dentro a uno stadio. Si parte dal Campidoglio, Fori Imperiali, Terme di Caracalla e poi si fa ritorno in città dopo essere passati sull’Appia Antica, illuminata dalle fiaccole. Le fiaccole ci vogliono perché si parte alle 17.30 e si arriva a notte e non basta la Luna. Bikila non è tra i favoriti, è solo la terza volta che corre una maratona. Lo sono il russo Popov, il neozelandese Magee, lo jugoslavo Mihailic, l’inglese Keily che corrono tutti insieme fino al chilometro 15. Il suo allenatore, il finlandese Onni Niskanen, guru del fondismo etiope ai primi passi di quella che diventerà un’illustre tradizione, gli ha detto però di curare il numero 26, il marocchino Rhadi Ben Abdessalam. Bikila però non lo trova: ha cambiato numero: 185. Lo capisce solo quando si trovano loro due in testa alla maratona. Corrono appaiati. A Porta San Sebastiano Ben Abdessalam allunga. Ma è un tentativo disperato per mascherare che è finito, non ne ha più. Bikila lo capisce e s’invola. Passa accanto all’obelisco che Mussolini ha portato via da Axum nel 1937 e che ora è rischiarato dalla Luna, quasi a indicare la strada verso la vittoria.
Il traguardo è in discesa. Bikila vince e manda baci. La folla s’innamora perché corre scalzo. Perché? Non perché non abbia le scarpe: “Corro scalzo per sentire meglio cosa mi dice la strada”.
La Luna e il Diavolo rosso – Di notte però, sotto la Luna, si corre anche in bicicletta. Primo Giro d’Italia, 13 maggio1909, partenza dal rondò di Loreto, Milano. Folla di gente, ressa di spinte, di grida. Mille, forse duemila persone. Sono le 2 di notte e sembra di essere in piazza del Duomo la domenica mattina. Sono in 127 sulla linea dello starter. I piedi puntano sui pedali, i garretti sono tesi, le schiene già curve. Marley, il cronometrista, abbassa la bandierina dello starter. Partiti. Si alza il clamore della folla. C’è una Luna a far da lampione lungo la Martesana. Non basta per far luce davanti a Giovanni Gerbi che scarta, inciampa, cade e rompe il telaio. Bestemmia, il Diavolo rosso, che per regolamento deve adesso aggiustarsi da solo la “macchina a pedali”. Torna in città, si fa aprire l’officina della Bianchi, la sua squadra, in via Bixio e sotto gli occhi fiscali di un giudice, forca, briga, salda alla meglio i tubi d’acciaio e riparte. Ma ha almeno tre ore di ritardo. Non importa, si lancia all’inseguimento del gruppo che, pedala verso Brescia, e poi Trento e poi Vicenza, per arrivare a Bologna. Vano il tentativo del Diavolo rosso. Arriverà ore dopo. Il suo Giro, appena partito, è già finito.
Pelè posa la luna – È l’11 ottobre 1962, altra notte di luna. A Lisbona, allo Stadio da Luz – non poteva che essere così – , 73.000 spettatori assistono al match di ritorno della finale della Coppa Intercontinentale tra Benfica e Santos. All’andata, al Maracanà di Rio, i brasiliani avevano vinto, ma di misura: 3-2. I lusitani, guidati da Eusebio, però sperano di ribaltare il risultato. Non hanno fatto i conti con Edson Arantes do Nascimiento, detto Pelé. Che aveva già fatto due gol all’andata, ma qui ne fa 3, due nella prima mezz’ora. Il terzo, quello del 4-0, a metà ripresa. La partita finisce 2-5. Eusebio, la giovane stella lusitana, è offuscata dalla “luna buona” di Pelé. I tifosi del Benfica seppure delusi applaudono sportivamente. Gianni Brera, inviato per Il Giorno, s’inventa una cosa mai vista per raccontare quanto è forte Pelé. Sentite qui: “Dolce, chiara è la notte e senza vento. Pronunciate le comunissime parole di questo che è fra gli endecasillabi di più limpida trasparenza. Continuate: e cheta sovr'ai tetti e dentro gli orti... È mia nonna che parla affacciandosi nottetempo alla finestra. Mia nonna analfabeta e grande. Posa la luna e di lontan rivela serena ogni montagna. Sapete che è Giacomino: ha il Parnaso fra le scapole, e i coglioni dicono che è gobbo. Bene: adesso guardate Pelè. Dolcechiaré: ha alzato il piedino prensile: lanotte: la palla si è fermata al primo contatto esenzavento: ricade ammansita sull'erba: un piedino prensile l'accarezza mentre l'altro spinge: echetasovraitetti: accorreva un avversario: si è coricato come un birillo: tettiposa: avanza un altro: piroetta; lalùna: ecco un compagno smarcato: oppure, ecco una nuova battuta di dribbling: si corica il secondo birillo: o magari no, questa volta il birillo non si corica e vince il tackle: Pelè ha sbagliato il dribbling: capita: anch'io ho dimenticato: sovr'ai tetti e dentro gli orti. Ripetizione: posalalunedì lontàn e rivèla: ora parte Pelè in progressivo. Serenognì montàgna. Correndo, senza sforzo apparente, ha fissato i bulloni in terra ed ha scaricato fulmineo la pedata: ha mirato, si è visto: mentre correva ha mirato e battuto a rete. Serenognì montàgna. Punto. Gol. […] Se avete capito ‘dolce e chiara è la notte e senza vento’ non ho bisogno di proseguire”.
Mr Shepard Moonswinging – C’è però davvero chi, fuor di letteratura e di licenza poetica, sulla Luna, ahilui, ha fatto davvero dello sport. 5 febbraio 1971, allunaggio della missione Apollo 14, neanche due anni dopo il primo passo di Armstrong. Il comandante dell’equipaggio comandante è Alan Shepard, un veterano del volo spaziale. È il primo americano a volare nello spazio, nelle missioni del programma Mercury con equipaggio: nel 1961 aveva guidato la navicella Freedom 7 in un volo suborbitale. È anche un tipo spiritoso. Al contrario di Armstrong che, appoggiando il piede sulla Luna, pronunciò la ieratica frase preparata chissà quanto tempo prima: “One small step for a man, one giant leap for mankind”, Shepard prima di partire per il primo volo spaziale pare che abbia detto: «Please, dear God, don't let me fuck up». Più o meno, “Dio mio, ti prego, fa che non sia io a mandare tutto a culo…”. Negli anni seguenti viene colpito dalla sindrome di Menière, una malattia della pressione auricolare, e viene dichiarato non idoneo al volo. Nel 1969 guarisce grazie a un’operazione chirurgica e viene reinserito nel programma.
Le operazioni di allunaggio di Apollo 14 sono completate nel migliore dei modi. Prima Shepard e poi il compagno Mitchell scendono dal Lem. Fanno due passeggiate, la prima di 5 ore, la seconda di 4 e 20 minuti: al termine di quest’ultima, il colpo di teatro. Shepard tira fuori dalla tasca della tuta una testa da ferro da golf del numero 6. La applica a un attrezzo per i prelievi lunari che fa gli da bastone. E poi due palle da golf. Prova due colpi: tenendo il bastone con una mano sola (la tuta gli impedisce qualsiasi altro movimento). Al primo tentativo fa cilecca. Mitchell gli dice: “You got more dirt than ball that time” (in effetti, c’è da chidersi come si dice ‘terra’ sulla Luna). Il secondo tentativo va meglio, la pallina viene colpita e vola per circa 200 metri più in là. E Shepard esclama: “Miles and miles and miles”. Anni dopo, Buzz Lightyear gli dovrà qualcosa per il suo celeberrimo “To infinity… and beyond”.
Sulla Terra come sulla Luna, è proprio vero quello che diceva Beppe Viola: “Per giocare a golf non è necessario essere stupidi, però aiuta molto”.