Quando la tournée era in provincia

Roberto Perrone

Tra molliche e zanzare. Né tv né viaggi in Asia. Per vedere Gullit dovevi guidare sulla A14

Il calcio tra molliche (di panini unti e bisunti, non lo street food stellato) e zanzare aveva un suo fascino non discreto, cioè era accaldato e affollato. Ora che cominciano le amichevoli estive, vale la pena di raccontare il periodo giurassico del soccer summer. Innanzitutto se volevi vedere i campioni dovevi armarti di santa pazienza, utilitaria e Autan e partire, che in tv non c’erano neanche le partite di campionato, figuriamoci Napoli-Benevento. Ecco, il calcio dei favolosi Eighties e anche un po’ dei Nineties aveva questa caratteristica. Dovevi viaggiare in provincia. Oggi se vuoi vedere De Ligt, Rabiot, Ramsey, in attesa di Lukaku, Modric e James, ti metti sul divano, allora per Zavarov ti toccava Vercelli. A voler continuare con il gioco di paragoni, trentacinque anni fa si scopriva l’Italia dietro ai fenomeni del calcio, il calcio d’estate era una guida turistica. Adesso i fenomeni li portiamo in oriente o negli Stati Uniti o dovunque tirino fuori il grano, allora a Livorno o a Parma, dove il Milan di Sacchi, Gullit e Van Basten giocò una storica amichevole nel 1987. Sul foglio con le formazioni, tra i giocatori del Milan, un certo punto compariva un certo Dil. E chi caspita è? La domanda mandò in fibrillazione la tribuna. Era il cognome della madre di Gullit, come il trecciolone era stato registrato all’anagrafe. Ora con due clic avremmo risolto tutto.

 

Arrivavano facce abbronzate da vacanze a Milano Marittima, Forte dei Marmi, qualche audace dalla Sardegna

Però eravamo pieni di fuoriclasse, dopo la riapertura delle frontiere – dal tracollo con la Corea del Nord ai Mondiali inglesi del 1966 venne intimato il “non passa lo straniero” fino al 1980 – tutti se ne permisero uno, non solo le grandi, da Platini a Falcao, da Rummenigge a Zico, da Francis a Krol, da Maradona a Van Basten. C’erano anche tante pippe, ma quelle non sono mai mancate. Solo che d’estate non si riconoscono mai.

La legge non scritta dell’amichevole estiva era che le squadre di serie A non si potevano incontrare tra di loro. Nel 1983, al Giornale, venni incaricato di coprire un evento straordinario, Udinese-Sampdoria. Era la prima volta che accadeva. Adesso le squadre di A si sfidano a Singapore, quella cantata dai Nuovi Angeli, “mie belle signore”, e te le guardi comodamente in tv.

 

C’era una volta il calcio estivo in Italia. I raduni erano happening dopolavoristici con gente in canotta e infradito, altro che petti scolpiti, elettrodi in bella vista, capetti firmati e Bentley mimetiche. Arrivavano facce abbronzate e sfatte da vacanze a Milano Marittima, Forte dei Marmi, qualche audace la Sardegna. Formentera e Miami, l’Indonesia e Zanzibar erano un lampo giallo al parabrise. I giocatori più in tiro si presentavano con la Golf GTD. Tutti più o meno stravaccati in sede, qualche parola con i giornalisti, quindi si saliva sul torpedone. Poi arrivò Silvio Berlusconi. Trovò l’andazzo scandalosamente privo di appeal e si inventò il famoso raduno all’Arena del 1986 con il Milan sbarcato dagli elicotteri, la Cavalcata delle Valchirie sparata dagli altoparlanti e l’odore del napalm di prima mattina. Quell’anno mi toccò comunque andare fino a San Benedetto la settimana di Ferragosto perché i rossoneri avevano un’amichevole laggiù. La A14 sembrava il delta del Mekong, per stare in tema. L’unica amichevole estiva che non è cambiata, perché qualcosa deve pur resistere al cambiamento, è la sfida in famiglia della Juventus a Villar Perosa, in val Chisone. Non ci fosse l’antico legame della Famiglia, l’avrebbero cancellata. Però Andrea Agnelli ha nel suo ufficio presidenziale una foto di lui bambino accanto al padre Umberto lassù e non si sogna, giustamente, di toglierla dall’agenda. I giornalisti salivano con la speranza che arrivasse l’Avvocato. Lo si capiva dall’elicottero che ci roteava sulle teste. Atterrava in villa poi veniva giù, si parlava, in un tripudio di gomitate e spigoli di videocamere, nel tragitto tra gli spogliatoi e la panchina dove Gianni Agnelli sedeva accanto all’allenatore di turno. La Juventus, una volta, andava addirittura in ritiro nell’hotel di Villar che poi venne acquistato da Pellegrini, il re delle mense. Un paio d’anni dopo lo zio Ernesto si prese anche l’Inter. Girava una battuta dell’Avvocato, probabilmente falsa: “Veda, il mio cuoco è diventato presidente dell’Inter”.

 

I giornalisti parlavano con tutti ai ritiri, oggi se chiedi un’intervista passi da una decina di persone e poi non te la danno

A un certo punto, verso la fine degli anni Ottanta, cominciò la moda dei tornei. Veri ancora, non le oscenità con le partite da 45 minuti, prendi i soldi e scappa dallo sponsor di turno. Due partite, chi vince va in finale, chi perde, gioca la “finalina”. Uno dei più seguiti, il “Memorial Baretti” in memoria del direttore di Tuttosport, si disputava nell’esotica di Saint-Vincent e tutte le squadre soggiornavano all’hotel Billia, quello del Casino. Erano estati di promiscuità, potevi girare ovunque e parlare con tutti. Io voglio fare un’intervista a Stefano Borgonovo appena arrivato alla Fiorentina dove avrebbe formato con Baggio una coppia da 29 gol sui 44 totali della squadra. Lo avvicino, lui è molto disponibile, addirittura entusiasta. Ci sediamo su due trespoli al bar. Cominciamo a parlare di argomenti leggeri quando arriva Alessandro Bocci, collega di Firenze, allora a Tuttosport. I fiorentini sono senza freni inibitori, hanno lo sberleffo incorporato. “Che fai?” mi chiede. E io: “Un’intervista”. “Sì, lo vedo ma perché con un panchinaro come Celeste Pin?”. Uno dei momenti più bassi della mia vita professionale. Però se guardate le foto si assomigliano, e comunque alla fine portai bene a Pin, che giocò un’ottima stagione. Adesso questo pericolo non si corre, se chiedi un’intervista devi passare da una decina di addetti alla comunicazione, un trio di bodyguard, una sessione del consiglio di sicurezza dell’Onu e poi non te la danno. Un anno dopo, però, ebbi la mia rivincita. L’altra faccia dell’amichevole estiva era la ricerca di un ristorante dove mettere (bene) le gambe sotto il tavolo. Sulle facce dei giocatori mi stavo attrezzando, su quelle dei ristoranti già allora non avevo uguali. Era il 18 o 19 agosto. Io e il compianto Silvio Garioni, storica firma del Corsera, ci aggiravamo, dopo Pro Vercelli-Juventus, tra risaie e squadriglie di insetti. Vidi un’insegna: “Cascina dei Fiori”. Scoprimmo che aveva aperto solo da qualche giorno e i proprietari, i fratelli Milan, erano restii ad accoglierci. Avevano paura di deludere due giornalisti (bei tempi). Insistemmo. Fu una grande cena. Tornato a Milano segnalai il ristorante ai colleghi che si occupavano di cucina. Arrivò a prendere una stella Michelin. Ci sono giornalisti che si vantano di saper individuare le future stelle nelle amichevoli estive. Io l’ho fatto di sicuro.

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