Felice Gimondi (foto LaPresse)

Felice Gimondi e Sanremo

Felice Gimondi

Alla mia prima classicissima, nel 1965, incontrai Tiziana. E nel ’74, finalmente, vinsi io

Pubblichiamo stralci di un articolo che il campione di ciclismo, di cui si sono svolti i funerali oggi, aveva scritto nel 2007 per Vita e Pensiero, la rivista culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

 


 

La Milano-Sanremo? Su un piano stretta- mente personale, a prescindere quindi dall’aspetto agonistico-sportivo, è stata la corsa più importante della mia vita. Mi riferisco a quella del 1965, la prima che ho disputato, nell’anno del mio debutto tra i professionisti. La corsa in sé non era andata bene né male: l’avevo conclusa in gruppo dopo avere lavorato per il mio capitano Adorni, il quale era andato vicino alla vittoria, arrivando secondo dietro l’olandese Den Hertog. A gara finita avevo deciso di tornare in macchina, proprio con Adorni, perché il giorno successivo dovevamo correre un circuito. Dopo un’oretta di viaggio, decidemmo di fermarci per una breve sosta a Diano Marina, dove Vittorio conosceva i proprietari di un albergo nel quale aveva soggiornato qualche volta nei ritiri collegiali della Salvarani. Strada facendo, Adorni mi aveva descritto le persone che avremmo incontrato: due nonni e la loro giovane nipote. Mi aspettavo di fare la conoscenza con due persone di una certa età e invece erano tutt’altro che anziani. E la nipote non era una bambina, ma una bellissima ragazza sui 16-17 anni. Si chiamava Tiziana. Fu così che conobbi la mia futura moglie: forse non fu amore a prima vista, ma di certo non rimasi indifferente e per quei pochi minuti che rimanemmo lì non riuscii a staccarle gli occhi di dosso. Fu il primo approccio di quello che poi sarebbe diventato un amore che dura ancor oggi.

 

A parte questo aspetto personale, cosa posso dire della Milano-Sanremo? Tante splendide cose. Anche se non era una corsa adatta alle mie caratteristiche, perché veniva troppo presto nella stagione e io, che ero un diesel, andavo in forma verso aprile-maggio, l’ho sempre disputata con grande entusiasmo e, posso dirlo, sempre con l’intenzione di esserne protagonista. Mi piaceva anche l’aria di festa che ne permeava le ore della vigilia, perché era la prima vera corsa della stagione e per tutti noi corridori era l’occasione per ritrovarsi dopo la sosta invernale. Che a quei tempi era lunga, perché dopo il Giro di Lombardia e il Trofeo Baracchi ci si toglieva il numero dalla schiena e ce lo si riattaccava solamente ai primi di marzo, per il Giro di Sardegna oppure per la Parigi-Nizza, le corse di avvicinamento alla Classicissima di primavera. Alla punzonatura, in piazza Castello a Milano, veniva un sacco di gente, richiamata dalla popolarità dei corridori e dal risveglio della primavera: papà e mamme con i loro ba bini mi facevano venire un po’ di nostalgia di Tiziana e, più avanti, delle mie due bambine Norma e Federica, che non vedevo da setti- mane perché Pezzi ci sottoponeva a lunghi ritiri collegiali in quella fase della stagione.

 

La gara, poi, è sempre stata fonte di grande stress. Si sapeva che nella parte iniziale non sarebbe successo nulla, però si era troppo distanti dal traguardo, tuttavia bisognava stare in campana e non lasciare prendere troppo vantaggio agli attaccanti del mattino. E, negli ultimi 50 chilometri, si doveva drizzare le antenne, perché ogni fuga, dai Capi in poi, poteva essere quella buona. E bisognava fare appello alle energie più perché in capo a quasi 300 chilometri era facile arrivare col serbatoio vuoto. Insomma, una gran corsa, tecnica, tattica e atletica insieme.

 

A me è riuscito di vincerla una volta, nel 1974, con indosso la maglia di campione del mondo e fu un’emozione fortissima. Quell’anno non c’era Merckx, che l’aveva già vinta cinque volte ed era rimasto a casa perché non stava bene. Io, che avevo già deciso di correre per vincere e, proprio con questo obiettivo, avevo accelerato i tempi della preparazione invernale forzando un po’ le mie abitudini e le mie caratteristiche, vidi in quell’assenza un segno del destino. Corsi dunque con una determinazione vicina alla ferocia, facendo lavorare la squadra dal Turchino in avanti. A Savona rimanemmo davanti in 18: si stava mettendo bene. Superato Capo Berta, diedi una decisa strattonata e, quando mi girai, vidi che erano rimasti alla mia ruota solamente Huysmans e De Meyer, due belgi tosti e pericolosi. A 25 chilometri dal traguardo, su un tratto dell’Aurelia sferzato da un fasti- dioso vento trasversale, diedi una seconda, violenta strattonata e rimasi solo. Ai piedi del Poggio – la Cipressa non era ancora stata inserita nel percorso – avevo 40” di vantaggio, che sarebbero poi diventati quasi due minuti sul traguardo di viale Roma. Ricordo che pedalai come un forsennato gli ultimi chilometri, non già perché avessi gli avversari alle calcagna, ma per la gioia, inebriante, di sentirmi solo e di essere sul punto di conquistare una classica che mancava nel mio albo d’oro.

 

(…) Un’altra cosa ci tengo a fare osservare: in 14 anni di professionismo la Milano-Sanremo l’ho disputata sempre, senza saltarne una. Ai miei tempi sarebbe stato inconcepibile non onorare una corsa come quella, mentre oggi non è più così, non lo è più da parecchi ann. (…) Per noi la Milano-Sanremo era davvero il primo grande appuntamento della stagione, per molti dei corridori di oggi è il terminale della prima parte dell’annata. Sarà anche logico, ma posso dire che mi piaceva di più prima?

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