Il poeta e il campione
Quando Delio Tessa raccontò l'addio all'azzurro di Giuseppe Meazza, il fuoriclasse dell’Ambrosiana-Inter e della Nazionale, morto quarant'anni fa. Un racconto
Lunedì, 1° maggio 1939
Milano, via Disciplini 2
Questa sì che è una casa di lusso. È tutto moderno. Scale di marmo, parquet di rovere di slavonia, colori pastello. E poi l’acqua calda, e il bagno con le piastrelle. Pensa, nell’atrio di sono le piante, e una fontanella con una statua dentro. Me lo diceva il mio Peppino che mi faceva cambiare vita. Beh, insomma, la “vita” continuo a farla. Però mica più come prima, sulla Vetra.
"Lucy, una come te, qui dentro che cosa ci sta a fare? Tu sei fatta per un’altra casa, ona cà de sciuri, una casa da signori» ripeteva il Peppin. "Un giorno ti porto via: promesso!".
L’ha mantenuta la promessa: qui davvero ci vengono i signori, i signori proprio come lui. Però devo dire che della casa sulla Vetra mi mancherà l’Avvocato. Con lui è sempre stato diverso, fin da quando siamo stati insieme la prima volta, eh! Anche in quella topaia le marchette con lui erano un’altra cosa: i suoi modi gentili, quel fare timido, discreto. E poi mi chiedeva sempre di me, e come stavo, e cosa pensavo... Mai nessuno lo fa, neanche il Peppino a dire il vero.
Però il Peppino mi ha promesso che un giorno mi porterà via di qui, e diventerò la sua signora. Devo solo avere un po’ di pazienza. Tra poco finisce il campionato.
Giovedì, 4 maggio 1939
Milano, piazza Vetra 15
L’Olga, la maitresse della Vetra, al quìndes, mi ha dato una lettera.
"Caro Avvocato, c’è posta per voi! Viva il Duce!", mi ha sghignazzato in faccia l’ultima volta che son staa in su la Vedra.
Era una lettera della Lucy, come tutti la chiaman lì dentro; della Ciana, come invece piace chiamarla a me. Mi scrive che ora sta alla casa di via Disciplini. Allora era vero. Me lo diceva sempre.
"Un giorno me ne vado via di qui. Vado a fare la signora!".
Io sorridevo da dietro gli occhiali che non mi toglievo mai, neanche quando saltavo sul letto. C’ha ragione; via Disciplini l’è un’altra cosa, s’intende. Minga come i casott de la Vedra: case vecchie come le carampane che ci vanno a sfiorire, le forzate della marchetta che lì dentro lentamente si spengono. Giorno e notte, notte e giorno, su e giù dalle scale, su e giù coi clienti. Un sòffoco, un odore di chiuso e di varechina, le finestre mai aperte. Sì, ma el casott de via Disciplini l’è minga per le mie tasche, roba de sciuri, non per un avocàtt de le cause perse come mi.
La Ciana mi scrive che le mancherò e che le piacerebbe rivedermi lo stesso. Alla Ciana ci voglio bene, e non so se ce la farò a non vederla proprio più. E va be’, vorrà dire che mi toccherà risparmiar qualcosa per andare in Disciplini. Vedremo. Quela pora tusa l’è inamuràda: non ci ha occhi che per el so Peppin, quel ch’el gioeuga al balùn, al fòlber. Dicono che sia campione del mondo, e minga voeuna: dü volt. Io non so neanche che cosa vuol dire essere campion dal mond di pesciàd, e ancor meno com’è che si fa a diventare ricchi e famosi correndo dietro a un pallone. A mì me pàren tucc di matt, di matt in müdand.
La Ciana l’ha incontrato non so dove, il campione del football, e si è innamorata. Dice che il Peppino la ama davvero e che le cambierà la vita. Mah, chissà. Di certo dalla Vetra in via Disciplini l’è già un bel cambiamento. Che poi il suo campione la porti via davvero, a fa’ la sciura, l’è un altro paio di maniche.
L’ho visto quelle poche volte che è passato dalla Vedra: l’è un bel fioeu, niente da dire. Sempre elegante, semper in sciàmbola, la riga tirata con la brillantina e il fazzoletto che spunta dal taschino. El te guarda e ti te capisset no se ‘l te ved o no: l’occhio a mezz’asta, un’aria tra il distratto e il sornione. A mi, a dilla tutta, el me par un po’ sonaa. Ma forse sunt mi che sunt vecc, e quel lì l’è un giovinott. Che oltretutto guadagna in un mese quel che io, tra lo studio e il tribunale, tiri minga su in do ann.
Oh, vita grama! Ma pussé grama de la mia l’è quella della Ciana. Povera tusa!
Venerdì 12 maggio 1939
Milano, spogliatoi dello stadio San Siro
Finito l’ultimo allenamento prima della partita di domani. Fatto finta di correre e fare gli esercizi. Ormai anche il Pozzo lo sa, ma el me dìs nient. E vorrei vedere: ci ho fatto vincere due Mondiali, ci ho fatto vincere... Questa partita che giochiamo domani dicono che vale come fosse il terzo di Mondianel. Giochiamo contro l’Inghilterra, la “perfida Albione”, come la ciama el Pansciùn ch’el vusa in piassa Venessia. Loro sono i maestri, gli inventori del football; noi però siamo i campioni del mondo. E domani vediamo chi l’è el pussé brao, il più bravo.
È la terza volta che gioco contro gli inglesi. Gente che non molla mai. Corre, forca, impicca finché il gol non te lo mette dentro. Ma quattro anni fa, a Londra, gli abbiam fatto vedere di che pasta siamo fatti. Neanche dodici minuti ed eravamo sotto di tre gol, e per di più ci avevano ridotto in dieci. El Luisito Monti, l’unico che quanto a botte poteva tenergli testa, l’avevan fatto fuori con un pestone: alluce rotto. Quando siamo rientrati negli spogliatoi, all’intervallo, ci siam guardati in faccia: mica potevamo farci sotterrare di gol. Eravamo o no gli stessi che cinque mesi prima avevamo vinto il Mondiale? E allora? Si poteva mica fare una figura così! Chissà el Pansciun cosa ci avrebbe urlato nelle orecchie, e mica da piazza Venezia, eh… No, no, proprio dentro le nostre orecchie. Com’è, come non è, quando è iniziato il secondo tempo sembravamo un’altra squadra. Dopo dieci minuti mi arriva dal Mumo, sì… l’Orsi, una bella palla a mezza altezza: sono poco fuori dall’area, ma non me lo faccio mica dire due volte. Tiro al volo, diagonale, palla che s’infila nell’angolino. Highbury citto! E citto ancamò pussé quattro minuti dopo, quando schiaccio di testa in rete una punizione del Ferraris IV. Uè, io ci credo davvero che adesso pareggiamo. Un tiro-gol mi viene deviato all’ultimo da un difensore con la punta della scarpa; e più passa il tempo e più quello spilungone del loro centromediano, Barker, che mi marcava stretto stretto, mi sembrava sempre più piccolo. Saranno mancati cinque minuti alla fine e io ne avevo ancora. Apro sull’out destro per il Guaita. Quando faccio così, dicono i giornali, che è come quando si gira l’interruttore: il gioco s’illumina, se pizza la lüs disen a Milan. Passo al Guaita, dicevo, e tutti i difensori vanno addosso all’ala: e io bel bello aspetto il cross, libero in mezzo all’area. Ma te se s’el fa quel pistola del Guaita? Invece di metterla in mezzo, el tira: esterno della rete. Coppet, oriundo de l’ostrega! La partita finisce 3-2 e i giornali del dì dopu titolano: “Il risultato è per gli inglesi, ma il successo per gl’italiani”. Dìsen semper inscì: ma a mi me gìren i ball!
Della squadra dei “leoni di Highbury” domani siamo rimasti solo io e el me amìs Serantoni. Tra gli inglesi, soltanto i due terzini, Male e Hapgood, e Stanley Matthews. Sperèm. È la quarantanovesima partita che gioco in maglia azzurra. Se solo non ci avessi ‘sti du penser…: el pé e la Lucy.
Sabato 13 maggio 1939
Milano, Stadio San Siro
Quelli dell’Ambrosiano mi ha mandato a seguire la partita di calcio Italia-Inghilterra, la partita del secolo. Io gli ho spiegato che non so un acca del football.
"Fa niente", ha risposto il caporedattore. "Tu devi fare il pezzo di colore, devi raccontare il contorno".
Il contorno, va bene. Ma io non so neanche dove sta lo stadio! Per non fare brutte figure ieri sono andato in avanscoperta. Mi han detto di prendere il 15 in Cordusio e di scendere al capolinea. Eccomi arrivato. Ma lo stadio qual è? Forse quello lì: vedo biglietterie, ingressi, tribune… Ma, no, quel lì l’è ‘l Trotter! Lo stadio è lì di fianco, alto da far paura. E adesso, il giorno dopo, che sono qui, proprio sulle tribune, in mezzo a una moltitudine di tifosi, altro che adunata oceanica! Che pagura! Ho la certezza di essere l’unico di queste decine di migliaia di persone che non solo non ha mai visto una partita di calcio, ma neppure conosce le regole del gioco. Area di rigore? Terzini? Portieri? Sì, quelli almeno li riconosco perché stanno davanti alla porta, e sono vestiti di nero. Così della partita capisco niente. Però me ne sto a guardare lo spettacolo degli spettatori. Ad esempi: prima della partita si è scatenato il temporale e tutto il pubblico era color caffelatte, il colore degli impermeabili… Poi smessa la pioggia lo stadio ha preso un incarnato rosa e le facce erano come tanti fanalini che si indirizzavano al campo, ora di qua, ora di là, a seconda di dove si svolgeva il gioco. E le facce e lo stadio si congestionavano sempre di più col cambiare del risultato. A proposito. Per me la partita era finita 3 a 1: tre gol in una porta e solo uno nell’altra. Soltanto alla fine mi han spiegato che dopo l’intervallo le squadre si scambiano il campo. Mica ci avevo mica fatto caso. La partita mi dicono quindi essere finita 2 a 2: i maestri sono rimasti maestri e i campioni campioni. Mi sa che dovrò farmi spiegare qualcosa di ‘sto football. Magari lo chiedo alla Ciana la prima volta che vado a trovarla in via Disciplini. A proposito: oggi il suo bel Peppino ha giocato davanti ai miei occhi. Ma chissà qual era! Mica l’ho riconosciuto io…
Mercoledì 17 maggio1939
Milano, via Disciplini 2
Ieri sera è venuto a trovarmi l’avvocato, el sciur Delio. Che bello! È sempre così gentile con me. Mi parla che a volte mi sembra che mi voglia bene come un papà. Sarà che si chiama quasi come il mio di papà. Io il mio papà non l’ho mai conosciuto. Si chiamava Adelio Dal Sass. L’hanno ammazzato in guerra, a trent’anni, nel 1916. Io non avevo ancora un anno. Lui era al fronte e sparava dalla parte di Cecco Beppe. La mia mamma invece è morta di spagnola nel 1919. Sono stata tirata su dalle suore. A diciott’anni mi hanno mandata a servizio a Milano. Una famiglia perbene, tutta lavoro e timor di Dio. Sì, perbene…. Quel vigliacco del figlio del padrone fin dal primo giorno non ha mai tolto gli occhi dalle mie tette, poi dagli occhi è passato alle mani. Dai e dai, mi ha messo incinta. Dopo l’aborto non restava che la casa chiusa.
Tutto è cominciato così. Sono quasi cinque anni che faccio il mestiere qui a Milano. Poi un anno fa ho conosciuto il Peppin a una festa al Lido Park. Quando ha capito che mestiere facevo ha voluto vedermi lo stesso ancora. E mi veniva a trovare sulla Vetra. Il Peppino fa il campione di football, dicono tutti che è il più bravo di tutti, e non soltanto qui a Milano. Io non so se è vero, però capisco che mi vuole bene e che un giorno mi porterà via e vivremo come dei signori. Per il momento mi ha portato qui in via Disciplini. Qui tutti lo conoscono e lo riveriscono, sciur Peppin di qua, sciur Peppin di là. Adesso è andato a Roma, per una trasferta: mi ha detto che è la finale della Coppa Italia.
Anche il sciur Delio mi vuole bene. Ieri abbiamo parlato tanto. Lui mi parla sempre tanto. Mi recita delle strane poesie. Ce n’è una che parla di una certa Ninetta che anche lei faceva la vita. Ce l’avevamo costretta, ma tanti tanti anni fa. Mi sa che alla fine le cose poi non sono mica tanto cambiate per noi ragazze del mestiere. A volte invece mi recita delle poesie che scrive lui, sempre in milanese. Ma el sciur Delio è poeta solo per passione; di mestiere fa l’avvocato, anche se non mi pare che stia tanto bene. È sempre strapelato, veste con degli abiti di trent’anni fa, e porta sempre un ombrello appeso al braccio. Ha un gran naso che gli cade in bocca e in bocca dove gli sberlùscia un dente d’oro. Gli occhiali stan sempre in bilico sul naso e sembra che gli stiano lì lì per cascare. Ma non se li toglie mai, neanche quando saliamo sul letto. Mi chiama Ciana, Lucy non gli piace. Mi parla sempre. Anche dopo che l’abbiamo fatto, lui vuole stare ancora un po’ a parlare. È bravissimo con le parole, sembra ammaestrarle come fa il domatore al circo coi leoni. E tu lo staresti ad ascoltare per ore. Però non si può mica. Anche qui in Disciplini, ordine e discrezione. E fare svelto. Da basso, dietro la concièrge, c’è tutto un quadrante illuminato come un transatlantico che dice coi lumini in quale stanza sta lavorando una ragazza, quale è libera. E non si può sgarrare col tempo che scattano le marchette. L’avocatt mi sa che qui non si può permettere la tariffa piena. Gli ho parlato del Peppino e delle sue intenzioni di tirarmi fuori di qui. Lui mi ha guardato da dietro agli occhiali, con tenerezza, e non ha detto niente. Forse è un po’ geloso.
Giovedì 18 maggio 1939
Milano, studio di via Rugabella 12
Ho visto la Ciana, iersera. Povera tosa. Al casino la chiamano Lucy, ma lei si chiama Luciana, Luciana Dal Sass. Ma a mi me pias ciamàla Ciana. Mi ha detto del campione, del Peppino Mazza, Mazzi, Meozzi… el nom el me regordi nanca pu. Lei è convinta che un giorno la porterà via di lì e che la farà diventare una signora, la sua signora. Io non ho avuto il cuore di dirle di aprire gli occhi. Perché dovrebbe aprirli, poi? El mund l’è pussè bel se gli occhi restan chiusi. Abbiam parlato a lungo de ‘sto Peppin. Sarà per questo, sarà per la partida de l’alter dì, che stanotte ho sognato di fare il calciatore. Propi mi che gioeughi al fòlber, pensa te! Trotterellavo per il campo senza dare nell’occhio, e poi, d’improvviso, cambiavo passo e lasciavo sul posto il terzino, e correbo verso il portiere e poi lo chiamavo incontro come il torero chiama il toro. «Vieni, vieni a prenderla…» era come se gli dicessi. Come un allocco nella pania, quello si buttava tra i miei piedi; bastava un tocco, e la palla spariva, il portiere si accucciava, e lemme lemme, quasi camminando, entravo in porta a depositare la palla, che era ricomparsa come d’incanto, nel sacco. Che bel! Solo che c’avevo il solito fastidio al piede, al sinistro. Come una scarpa piena di formiche.
Giovedì 18 maggio 1939
Roma, Stadio del Partito Nazionale Fascista, sera
È appena finita la partita. Abbiam vinto la Coppa Italia: 2 a 1 al Novara. In campionato siamo arrivati terzi. Ma io lo sento che non son più quello dell’anno scorso. El sinister el senti quasi pu, delle volte l’è come addormentato. Anche l’altro giorno a San Siro, contro gli inglesi, il primo tempo ho camminato per il campo. Poi nella ripresa ho giocato venti minuti, e due passaggi smarcanti: a Biavati, che ha fatto l’1 a 1, e poi il cross per Piola, che l’ha casciada denter cont una man. Che baloss! L’han visto tutti, ma l’arbitro niente. Gol. Gl’inglés ghe vedeven pu da la rabia. E siccome non mollano mai, han pareggiato che mancavan dieci minuti. Peccàa! Mi sarebbe piaciuta vincere. Avevo come il presentimento che a San Siro con la Nazionale non ci avrei più giocato. Saran ‘sti penser, el pé e la Lucy. Ce lo devo dire alla Lucy, l’è una brava tosa e non se lo merita. Ma ce lo devo dire. La settimana prossima la porto a fare un viaggetto con la Lambda e gh’el disi. Così mi tolgo il pensiero. Al piede ci penserò ‘st’estate. Magari con qualche bagno di sabbia al mare passa tutto.
Giovedì 1° giugno 1939,
Madonna di Campiglio, Albergo Hermitage
Il posto è meraviglioso. Un albergo di prima classe. Ho chiesto al Peppin di portarmi in val Rendena dove sono nata. Non ci tornavo da quasi sei anni, da quando le suore mi han mandato a Milano a far la cameriera. Siamo arrivati con la macchina, la Lancia Lambda. Il Peppin guida come un vero signore, guanti, occhiali. Siamo arrivati davanti all’albergo e ha lasciato parcheggiare la macchina all’uomo della concièrge. Siamo saliti in camera. Che meraviglia le montagne dalla finestra: le Dolomiti del Brenta. Mi veniva da piangere, non me le ricordavo così belle. Ma il mio Peppino aveva voglia di me e non mi ha lasciato molto tempo per la commozione: siamo finiti nel letto. Mi ha promesso che domani mi porta a Pinzolo. Non voglio farmi vedere, però. Non mi riconoscerà nessuno, però non ci ho voglia lo stesso. Voglio solo andare al cimitero sulla tomba della mia mamma. Ci andremo di mattina presto, appena ci svegliamo. Durante il viaggio ho raccontato al Peppin del sciur Delio, dell’avvocato e delle sue poesie. Il Peppin mi guardava sornione, un mezzo sorriso, non so che cosa stesse pensando. Forse è geloso? No, non può essere. Se vedesse l’avvocato non potrebbe essere geloso…
Venerdì 2 giugno 1939,
Milano, piazza Castello
Sono qui nell’appartamento nuovo. Han quasi finito i lavori. Tra poco più di un mese è tutto pronto. Il 29 luglio sposerò Margherita e ci verremo ad abitare. Dalle finestre del salotto si vede il Castello. Minga mal per voeun che l’è nassuu dedré de l’Ortomercato. Non ce l’ho fatta però a dirglielo alla Lucy. Ieri mi ha costretto a svegliarmi alle 7 del mattino, che dovevamo andare al cimitero di Pinzolo. A mì, ai set ur! Ma se cuminci a capì on quei coss dumà vers i vundes… Mi si chiudevano gli occhi, che per poco, scendendo da Madonna di Campiglio, non tiravo dritto un tornante. E per tutto il viaggio di ritorno un sonno, ma un sonno! È che la notte abbiam fatto un po’ di sciambola: la Lucy ha dato il meglio, e io poi non ne avevo mai abbastanza. Che gambe, lunghe, tornite! E che schiena, un arco perfetto dai fianchi alle spalle: quando gli stavo sopra e gli contavo il filo delle vertebre, e affondavo la faccia nei suoi capelli biondi sparlusciati, mi sembrava che non ci fosse coppa del Mondo, o derby che valesse il confronto. Almeno lì per lì… Poi in quelle poche ore di sonno ho sognato di essere quello là, el sciur Delio, come lo chiama lei. Per tutto il viaggio ha contato su de l’avocàtt che scriv i poesì. E nel sogno andavo anch’io in giro per Milano, con l’ombrello al braccio, e il soprabito dei tempi di Carlo Còdega, e un farfallin taccà su al coll che parevi un pulìn el dì de Nadal. Mi son svegliato che mi sembrava di aver male a un dente. Mal de dent a mì, che ce li ho così bianchi che faccio anche la réclame al dentifricio. Domani parto per la tournée con la Nazionale: Belgrado, Budapest, Bucarest. Torno a metà del mese e devo trovare il coraggio di mettere a posto le cose.
Lunedì 29 giugno 1939,
Milano, viale Beatrice d’Este 17
La Ciana è sempre più smorta. L’ho vista ieri, in Disciplini. La m’ha brasciaa su come si abbraccia un papà. E la piangeva, e la singhiozzava. Povera tosa: il suo Peppino è sparito, non lo vede più da quasi un mese. Dice che non è possibile che si sia dimenticato di lei; che certo avrà avuto i suoi impegni, l’Ambrosiana, la Nazionale. Sapeva anche che doveva farsi delle cure a un piede. Fatto sta che non si vedono più dalla volta che l’ha portata a Pinzolo, in Trentino. E pensare che era così contenta di tornare a quelle sue montagne: i prati, il Sarca, la pineta dove andava a giocare da piccola con le altre orfane. Mah, forse dovrei discantarla via, dirle che i omm in tucc porscèi, e mi ci metto anch’io, s’intende. Però la me fa una pèna! Pora tosa! In due, tre settimane è smagrita che non sembra più lei; due calamai al posto degli occhi; la pelle che sembra svuotata, le tette appassite. La mère Chantal, la tenutaria di via Disciplini, comincia a guardarla in cagnesco. Così i clienti scappano; anca lè si domanda dove sia finito el bel Peppìn.
Intanto io continuo a sognare di fare il calciatore. Stanotte battevo un calcio di punizione: calcio d’interno sopra la barriera; la parabola sembra alta, troppo alta, poi di colpo s’incurva, quel tanto che basta per azzeccare l’angolino all’incrocio dei pali. Tutti immobili, avversari, compagni, pubblico: soltanto io faccio un saltello e sorrido e faccio vedere a tutti il mio dente d’oro.
Domenica 9 luglio 1939,
Milano, via Disciplini 2
Ieri han portato via la Salomè. Dicono che non può più esercitare. Perlomeno non qui, al casino di via Disciplini. Il nome vero della Salomè è Miriam Carpi, “di razza ebrea”. Che cosa vuol dire “di razza ebrea”, non mica ben l’ho capito. La Salomè era la più ricercata fino a qualche mese fa. Anche a me del resto nessuno più mi cerca. Il Peppin è scomparso, e anche l’avvocato non lo vedo più da un po’.
Martedì 18 luglio 1939
Sul treno per Helsinki
Siamo partiti ieri per Helsinki. Il treno oltre il Brennero taglia una gran fetta d’Europa: Austria, Sudèti, tutti nomi che si sentono sui giornali. Quel Buratìn coi barbìs, l’amis del Pansciun, dicono che stia preparando la guerra. Mi capiss nagotta de ‘sti rob chi. Ma l’aria che si respira non mi piace per niente. Guardo fuori dal finestrino e mi ricordo che stanotte ho fatto brutti sogni, forse lontani ricordi. Ero solo un bambino ma la guerra l’avevo già provata anch’io: mio papà, Annibale, era partito e non era mai più tornato. Io non me lo ricordo neanche. Poi, nel ’18, Caporetto. A Milano si era sparsa la voce che tornavano i tudesch, come nel ’48. In porta Vittoria on quaj veggèt si ricordava del Radetsky, di settant’anni prima. Donne che piangevano, gente che si urlava in faccia: “Disfattista!” “Mascanbron!” “Allarmista!” “Viliacchi!”, la paura della guerra nelle case.
Un sogno, un ricordo, non so. So che mi son svegliato di soprassalto nel wagon-lit e adesso sto qui a guardare ‘sto pezzo di Europa nera e buia che scappa via dal finestrino del treno. E di notte continua a farmi male un dente. A mi me par che semm tucc matt. Qui sta per scoppiare un casotto della madonna, e noi andiamo a giocare a Helsinki. Non ci è bastata la tournée nei Balcani. Tre partite, tre vittorie, ma mi segni pü nanca cul segn de la crus, neanche col segno della croce. Piola, Piola, semper lu. Grand e ciula d’on paves. E io, io che resto a guardare. No, grassie, mèi de no. Torno a casa, mi sposo e metto la testa, il cuore e un qualche cos’altro a posto. Ormai ho dato. E poi c’è ‘sto piede qui che me tiri adré. E la Lucy, la Lucy… chissà come la sta quela povera tosa…
Sabato 29 luglio 1939
Milano, via Disciplini 2
La pagina del Corriere me l’ha portata la Lola, e ci aveva un sorrisino ironico che quelli che già sai che ti fanno male. «Oggi a Milano si sposa Giuseppe Meazza. Il campione azzurro e dell’Ambrosiana-Inter convolerà a nozze con la signorina Margherita Galloni. Al “Balilla” nazionale e alla sua fortunata sposa le più sentite nostre felicitazioni». Arriva agosto, e io resto qui. Tutte le altre vanno in Riviera, a Cortina, a Sülden, all’Ardenza: io resto qui, con le vecchie che non vuole nessuno, nella città che si svuota.
Domenica 30 luglio 1939
Milano, studio di via Rugabella 12
Hai capito, il campione, il Peppino Meazza? Ha saltato la cavallina. E la povera Ciana? Speriamo in bene. Già, ma cosa c’è da sperare in bene, di questi tempi? Io ormai ci ho un unico desiderio: quello di morire dove sono nato. Per questo la cosa migliore sarebbe che una bella bombetta cadesse sulla mia casa, così da eliminare in un sol colpo proprietà e proprietario. E non se ne parla più: abbiamo vissuto abbastanza. E poi così la smetterò di fare ‘sti sogni da calciatore. Stanotte c’era una mischia sotto porta, un pallone che spioveva dall’alto. Saltavano tutti e nessuno la prendeva, e invece io, che sembravo sommerso, facevo spuntare la mia testolina lucida di brillantina, e la sfioravo quel che bastava, tra naso e fronte, per mandarla in rete. Unico problema: ho perso gli occhiali.
Giovedì 21 settembre 1939,
Milano, piazza Castello
Stamattina son sceso in via Camperio, al bancone del bar. Un Campari e due notizie sul Corriere, in cronaca. La prima.
"Ieri notte, presso la clinica città di Milano è deceduto per le conseguenze di una setticemia dentaria l’avvocato Delio Tessa. Aveva cinquantadue anni e scriveva poesie per pochi amici".
Uèi, ma quest chi l’è l’avocatt della Lucy, quel che fino a qualche giorno fa m’insognavo di essere la notte, e ci avevo pure il mal di denti.
Seconda notizia.
"Nelle acque del Naviglio Pavese, in località Conca Fallata, è stato trovato il corpo senza vita di una giovane donna, intorno ai venticinque anni; si presume si tratti di Luciana Dal Sass, la cui scomparsa era stata denunciata già da alcune settimane. Sono in corso le indagini, ma pare certo che si tratti di un caso di suicidio".
Ho chiuso il giornale, ho finito il Campari e sono tornato a casa con fatica, trascinando il piede sinistro.
Il racconto è liberamente ispirato alle biografie milanesi di Giuseppe Meazza, campione dell’Ambrosiana-Inter e della Nazionale, e a Delio Tessa, uno dei maggiori poeti italiani del Novecento. La figura di Luciana “Lucy” Dal Sass è puramente d’invenzione. Delio Tessa è morto il 20 settembre 1939, per effetto di un’infezione dentaria trascurata; il 13 maggio venne incaricato di scrivere un pezzo su Italia-Inghilterra dal quotidiano “L’Ambrosiano”; fu quella l’ultima partita giocata da Meazza in terra italiana e allo stadio di San Siro con la maglia azzurra; l’ultima partita in assoluto di Meazza con la Nazionale fu disputata a Helsinki il 20 luglio 1939 e terminò col punteggio di 3 a 2 per l’Italia, con tripletta di Silvio Piola. La fulgida carriera di Giuseppe Meazza venne di fatto arrestata da un disturbo circolatorio al piede sinistro, che lo tenne bloccato per l’intera stagione 1939-40; passato dall’Inter al Milan, e quindi alla Juventus, al Varese e all’Atalanta, per chiudere dal 1945 al 1947 ancora all’Inter, Meazza nei restanti anni di carriera giocata non riuscì più a tornare ai vertici del calcio nazionale. Giuseppe Meazza, detto Peppino, è morto a Lissone quarant’anni fa, il 21 agosto 1979.